Gabriele Beccaria, Tuttoscienze - La Stampa 3/3/2010, pagina 21, 3 marzo 2010
IL CODICE DELL’ERA GLACIALE
E’ immensamente più eccitante del codice da Vinci. E’ il codice dell’Era Glaciale. Ventisei simboli depositati tra 30 mila e 10 mila anni fa dai nostri progenitori nelle caverne europee e africane e anche in quelle delle Americhe e dell’Estremo Oriente, fino in Australia. Mani spalancate e chiuse, cerchi e spirali, linee, punti e serpentine, triangoli, croci e scale, in un crescendo simbolico che fa baluginare la manifestazione di un pensiero globale: è questa la prima scrittura dell’umanità?
Genevieve von Petzinger, lei è PhD alla University of Victoria in Canada e la sua scoperta di 26 segni antichissimi è clamorosa: 26 come le lettere dell’alfabeto inglese.
«Quando ci ho pensato, mi sono detta: ”No! Speriamo di trovare subito il 27° segno”. Ma, scherzi a parte, non si tratta di un alfabeto: sono segni pittografici».
Che indicano o alludono a che cosa?
«Sono segni astratti, che raffigurano qualcosa che non è immediatamente identificabile con una realtà concreta, come avviene con i cavalli o gli orsi dipinti sulle stesse pareti. Come si illustrano, per esempio, i concetti dell’amore o della morte, che i nostri progenitori possedevano, dato che seppellivano i morti in modi elaborati? In quegli angoli e in quelle linee a zigzag ci dev’essere stato un significato: rappresentano il primo tentativo di trattare delle idee e di comunicarle».
Le sue ricerche - che hanno fatto sensazione al meeting di paleoantropologia di Chicago - fanno pensare a un linguaggio universale.
«Credo che si tratti del tentativo di esprimere su un supporto un linguaggio parlato già esistente. I sapiens hanno compiuto viaggi straordinari, una volta usciti dall’Africa, anche per mare. Non possono averli compiuti senza aver intrecciato tante conversazioni. E non dimentichiamo che il loro cervello era identico al nostro».
Quei segni dove nacquero? In Africa o durante le migrazioni in Europa e in Asia?
«E’ uno dei problemi controversi e la scuola tradizionale ipotizza un’evoluzione. Ma una risposta, diversa, l’ho ottenuta quando ho messo insieme il primo database: è allora che mi sono resa conto che 19 segni su 26 erano già in uso 30 mila anni fa. E’ un fatto incredibile! E quindi probabile che si tratti di un’eredità che questi gruppi hanno portato con sé dall’Africa, ma è una questione da approfondire, per esempio indagando alcuni siti nell’Italia del Sud risalenti a epoche anteriori e poi estendendo l’analisi al resto dell’Europa. Si dovranno seguire le tante rotte migratorie e le testimonianze via via lasciate, senza dimenticare i percorsi commerciali, se si pensa che si sono trovati monili di conchiglie a centinaia di km dalle coste. Insieme con gli oggetti devono essere state scambiate anche tante informazioni. Le mie ricerche sono all’inizio: stanno toccando la punta dell’iceberg».
Lei sostiene, per esempio, che il cerchio fa parte dei segni ancestrali, mentre il simbolo «aviforme» è tra i «recenti».
«Sì. Quello a forma di uccello è raro e compare in Spagna non prima di 22 mila anni fa. Al contrario circoli e segni ad angolo sono tra i più universali».
In attesa di una «Stele di Rosetta» per la decifrazione, quali significati possono racchiudere? Vicini alla magia o alla realtà quotidiana?
«La mia sensazione è che ci sia un alto tasso di ”dualismo”, con aspetti pratici intrecciati ad altri immateriali. E, comunque, il fatto di disegnare un’idea su una parete è di per se stesso straordinario. E’ un’espressione creativa, al di là delle preoccupazioni di mettere insieme il pranzo con la cena. Quanto ai significati specifici, non penso che riusciremo mai a scoprirli, a meno di avere una macchina del tempo. Ma c’è un ulteriore punto».
Di quale si tratta?
«Se per 20 mila anni sono state compiute scelte consapevoli allo scopo di replicare le stesse forme, il significato passa in secondo piano. Un fatto è certo: era una pratica importante ed ecco perché escludo che fossero segni casuali. E non solo. In ogni sito venivano usati alcuni gruppi di simboli e non altri».
Qual è il rapporto tra i segni e le tante pitture di animali? Sono contemporanei o no?
«In genere sembrano contemporanei, anche se in tanti siti si trovano strati multipli di occupazione e quindi le realizzazioni sulle pareti devono avere conosciuto fasi diverse. Segni e immagini, però, appaiono spesso abilmente integrati. Lo si vede con i punti e le mani aperte che circondano i cavalli nella grotta francese di Pech Merle, mentre un altro esempio è Lascaux: è impressionante il lavoro collettivo per l’organizzazione di immagini e simboli, per non parlare della quantità dei pigmenti, tanto che ci sono perfino gli indizi dell’uso di impalcature. La varietà delle soluzioni visive di ogni luogo è tale da suggerire la varietà degli scopi comunicativi».
Altro segno ricorrente è la «mano negativa»: perché lei lo ritiene tanto importante?
«Si trova ovunque, dall’America all’Australia: il fatto che ci siano alcune dita ripiegate fa ipotizzare che sia la rappresentazione di un linguaggio gestuale, forse inventato durante le battute di caccia, quando era fondamentale non spaventare le prede».
Può raccontare il momento in cui si è accorta che stava portando alla luce la «madre di tutte le lingue»?
«La prima volta? Nel 2005, quando ero studentessa: analizzando alcune immagini rupestri, ho notato piccole righe e punti e ho chiesto alla professoressa: ”Di cosa si tratta?”. Lei scosse la testa: ”Non ne ho idea!”. Ecco com’è cominciata la mia avventura».