Maurizio Chierici, il Fatto Quotidiano 3/3/2010;, 3 marzo 2010
CAORSO: RITORNO ATOMICO - ASPETTAVANO
la voce del governo come una fata morgana il giorno in cui si decidevano le regole del nuovo nucleare. Dove, come, quando. Ma il dove resta segreto e la delusione ammutolisce. Attorno agli argini del Po un paese di cinquemila abitanti, radio e tv accese. La gente raccoglie l’allegria del ministro Scajola: ”Alle popolazioni dei luoghi che ospiteranno le centrali verranno riconosciute indennità e bollette ridotte”. Niente male con questi quarti di luna. Controllano ogni parola con l’attenzione di chi conta i numeri dell’Enalotto. Anche il sindaco Fabio Callori (sindaco a tempo pieno) non perde una virgola dietro la scrivania. Risponde a Radio 24 con l’eleganza di un politico in carriera nelle file di Berlusconi. Racconta che il suo popolo ha dimenticato la paura del mostro. Anni guancia a guancia e non è successo niente. Dopo il referendum (1987), dopo Chernobyl, la centrale si è addormentata, posti di lavoro dimezzati. Lentissima chiusura che la burocrazia nasconde nel silenzio. Resistono cento tecnici- infermieri; ne accompagnano l’agonia. Le ultime barre radioattive partiranno fra pochi mesi: camion e vagoni. Viaggio in Francia senza tremori anche se i carichi sono pericolosi ma le stazioni non lo sanno e non se ne accorgono le finestre, spalancate sui binari per dare aria buona alle case. Restano 8700 fusti di scorie sigillate in fondo ai magazzini di un nord per un giorno senza automobili nell’illusione di annacquare l’inquinamento. Le ultime barre radioattive partiranno tra pochi mesi Sono passati ventitrè anni e l’Italia sta ancora cercando dove smaltire l’immondizia radioattiva. La rivolta di Scansano Jonico, non rassegnata al destino di discarica ad orologeria, intimorisce i governi che rimandano la sfida all’impopolarità. E Caorso conserva i cascami del mostro. Prima o poi qualcosa verrà fuori. Due città svedesi fanno pubblicità ai loro cimiteri atomici: tombe a cinque stelle ma costano un occhio della testa. Con la crisi sulle spalle, Roma allunga il momento di riflessione: insiste per un deposito nazionale ”da i n d i v i d u a re ”. Aspettiamo, aspettiamo. Nelle ultime elezioni il sindaco è stato confermato col 71 per cento. Governa assieme alla Lega nella pianura ex rossa che il confine lombardo sbiadisce in una identità non definita. Paesi annunciati nel creolo ruspante di due regioni che si sfiorano: Caorso, Curs; Fossadello, Fusadel; Roncarolo, Runcarol. E i nomi cresciuti nella storia diventano starnuti, Padania in paradiso. Ha rivinto il comune e conquistato la provincia con lo slogan che ancora trascina gli elettori al rifiuto nucleare: ”Noi abbiamo già dato”. Adesso il sindaco rallenta le parole perché i suoi notabili di Roma tirano diritto: ”Siamo contrari ma non abbiamo la cultura della negazione assoluta”. Insomma, mai più quei vecchi No gridati nei cortei. ”Bisogna ragionare e poi accettare o rifiutare. Soprattutto considerare che le centrali nucleari accese in Francia e Svizzera sono a due passi. Se succede qualcosa è finita anche per noi. Quindi…”. Lento cammino verso il sì. Il sindaco del ”No” ora mitiga il dissenso Ma la gente che poco fa ha votato contro, adesso che un’altra centrale rinasce al posto della vecchia (è quasi sicuro), ripeterà il ripudio oppure si inchina alla disciplina di partito? Intanto rifà i conti con la pazienza della parsimonia contadina. Possono i soldi (salario della paura) giustificare il voltafaccia? Attorno ai tavoli dei caffè, carte in mano, rimodulano il possibilismo del sindaco. Francia, Svizzera così vicine e poi la vecchia centrale ”che non ha dato mai fastidio”. Per principio restano contrari; nella pratica aspettano ”quando si saprà se toccherà a noi”. Scajola annuncia gioioso ma non dice il nome dei posti e nei bar ridono: ”L’è propri furb. Spiegherà dopo le elezioni se ci siamo dentro. Altrimenti perde voti”. In ogni risposta sono convinti che l’av ve n t u ra nucleare continua. Programma indefinito ma chiaro. Due centrali nel Lazio, una in Puglia (’se rimandiamo a casa Vendola”) e la cattedrale attorno al Po. Caorso, centrale madre, non può traslocare nel Po piemontese agitato dalle voci della Tav. Il retropensiero mette in conto un’ipotesi sciagurata: che il reattore attraversi il grande fiume per insediarsi nella sponda dirimpetto, Castelnuovo Bocca d’Adda, provincia della Lodi lombarda. ”Duecento metri d’acqua non ci salvano da niente. E perdiamo i soldi che fanno sempre comodo. Meglio qui”. Il cuore di Caorso oscilla tra la paura metabolizzata e le tentazioni della convenienza. Oggi, più del passato, ma anche vent’anni fa. Nel referendum, il no nucleare aveva vinto a Piacenza con l’80 per cento; solo il 60 nel paese sul ciglio del baratro virtuale. Perché? Il sindaco fa capire che il tesoretto continua ad arrivare, sgocciolì o della centrale dismessa: 10 milioni di euro con gli arretrati; altri 3 milioni e 200 mila sono in viaggio. Vogliono dire strade asfaltate, mutui rimborsati, meno un 50 per cento sulla tassa dei rifiuti, allargato ai libri di testo e alle corriere dei ragazzi su e giù dalle scuole di Piacenza. Benvenuti nel profondo nord dell’Europa nucleare. Elisa Calamari, giornalista di La Provincia di Cremona, abita qui. Le sue inchieste inseguono i discorsi riconoscendo gli interlocutori, eppure il risultato non è diverso dagli incontri di un cronista di passaggio. Metà paese contro, metà favorevole. Nessun proclama: mormorii. Bisogna dire che i contrari restano sensibili alle seduzioni distribuite dal governo. Soldi, appalti. Negli anni della cinghia stretta torna il sogno dei tempi beati. Complicato fare i conti di quanto è davvero costata la vecchia centrale, ma, sfogliando le foto di famiglia, le nuove generazioni scoprono che la montagna dei soldi ha disegnato un paese diverso. Raddoppiato. Si accendono vetrine mai illuminate prima del nucleare. Negozi e palazzi che non c’erano, nuove strade, abitudini da città. La voragine scavata sotto l’argine e i camion e le gru hanno addolcito le abitudini contadine, che erano barbabietole, grano, orti, stalle. Braccianti dai padroni dalle braghe bianche scoprono la dignità nella tuta della centrale. Serre che ancora continuano sotto l’occhio del mostro da seppellire. Latte, aglio, verdura, cipolle. Festival dell’a glio, festival delle cipolle, festival del latte attorno al nocciolo delle radiazioni. Ma la dignità conquistata ormai resta. Si rafforzerà con la centrale numero due. Pazienza per i fumi radioattivi nella catena alimentare: solo sospetti, per il momento. Trent’anni fa arrivano persone che non se ne sono andate. Disoccupati che sparivano. Si aprono ristoranti da guida Michelin. E poi il turismo delle delegazioni, controlli tecnici, gite scolastiche. Caorso oscilla tra la paura e le tentazioni della convenienza Fra un mese vota chi è nato mentre accendevano il reattore. E’ cresciuto con l’idea di averlo a portata di gomito. Generazione che sfoglia discorsi e giornali col fatalismo di chi immagina un futuro morbido in questi giorni grigi. Greenpeace apre una petizione? ”Greenpeace è lontana. Noi viviamo qui. La risposta può essere solo nostra”. Resta il no assoluto di Daniele Nastrucci, ex sindaco Pd che la destra ha travolto: ”R e s p i n ge n d o il nucleare nazionale salviamo Caorso dal nuovo impianto”. Ma la politica del partito sfuma i radicalismi: non contraria, non favorevole. ”Aspettiamo la quarta generazione perché Sarkozy svende centrali invecchiate come la nostra”. Si riparla di soldi: conti gonfiati-sgonfiati. Salvatore Giannella (giornalista, già direttore per 10 anni di A i ro n e e scrittore che ha dedicato lunghe ricerche all’ambiente) si inquieta perché i costruttori francesi hanno offerto agli Emirati Arabi quattro reattori Erp, fratelli del reattore che arriva, per 6,5 miliardi l’uno ”mentre in Italia i miliardi diventano 4”. Sconto per gli amici o, al momento del tirare le somme, sorprese amare? Mario Natale, Legambiente di Piacenza, ricorda la catena umana da Caorso ai Tornado dell’aeroporto militare di San Damiano, bombardieri che chissà cosa portano in volo. Nei giorni della Guerra fredda erano bersagli militari troppo vicini per dormire tranquilli. E negli anni di al Qaeda il dubbio resta. Ecco le immagini della protesta lontana, serpentone lungo 30 chilometri, Italia che sognava un futuro armonioso, Italia che non c’è più. ”Ma il sentire è cambiato”: infiacchiti e distratti dal non arrivare alla fine del mese, posti che saltano mentre Caorso riarmata garantisce lo stipendio. Mario Natale è d’accordo con Giannella: i miliardi delle nuove centrali ruberanno risorse all’energia sostenibile. ”Resteremo inchiodati a reattori che possono coprire appena il 25 per cento del bisogno. Per il resto, avanti con benzina, carbone, gas. E l’inquinamento continua”. Vorrei incontrare l’ingegnere che dirige la centrale spenta. L’ingegnere si scusa: per domande e permessi bisogna chiedere alla Sogin di Roma, nata nel 2000 per smantellare l’impianto ma che il governo ha commissariato sciogliendo il consiglio di amministrazione. Centralizzare per snellire. Bertolaso non c’entra, eppure il metodo non cambia. Devo parlare con Marco Sabatini, addetto stampa Sogin, il quale mi rimanda al sito che spiega tutto. Aspetta le domande. Risponderà per scritto. Cautela comprensibile: i depositi pericolosi (barre, residui) sono ancora lì. Franco Lucchini, consigliere comunale Forza Italia, cuore An, consola la mia delusione: certo che possiamo guardare la centrale da vicino dribblando le burocrazie dell’ingresso principale. Nessun problema. Da un anno in pensione dopo tanto lavoro alla centrale, guida i passi verso una delle vie di fuga che l’emergenza collaudava ogni settimana: stradina sull’argine. Il Po appena sotto. Un cancello taglia la strada. Limite invalicabile. Cartello che avverte ”Sorveglianza armata”. Ma qualcuno ha strappato la rete di recinzione. Entriamo, fotografiamo. Non è pericoloso? Sorride alzando le spalle. E poi ricordi e nostalgia. Ultimo stipendio da portinaio più di 2.000 euro al mese. E la pesca miracolosa degli inverni che gelano. L’acqua del fiume raffreddava le piscine attorno alla capsula del nocciolo infuocato e quando sgorgava nel canale che la riportava in Po, avvolgeva gli argini in una nuvola di vapore. Pesci infreddoliti risalivano fin sotto. Pescarli, un gioco. Uno al minuto nei cestini. Da mettere in padella? ”A dire il vero dovevamo farli analizzare, ma andavamo sulla fiducia”. Dribblando l’ingresso principale per guardare da vicino la centrale Nella fattoria vicina (200 metri, forse meno) lo zoo ruspante di marito e moglie che aspettano il ritorno del nucleare. Simpatici, ottimisti. Vanna Fraschini, bellezza che gli anni hanno appena spento; Franco Stefanoni, capofamiglia cacciatore. Dal camino mi guarda un Mussolini di gesso umanizzato nell’abbraccio di un rosario. Telefona un onorevole An preoccupato per la campagna elettorale: ”Sto lavorando in silenzio per te. Ma ti voglio vedere”. L’onorevole promette: cara signora, arriverò. Nel cortile 70 galline, anatre, pavoni, oche, asini, cavalli, pony, cani dappertutto, gatti su ogni sedia. In gabbia il cinghiale che sembra un bue. Ricordano i tempi felici di quando le ronde armate passavano ogni tante ore. Portavano gli scarti della mensa per il pastone degli animali. Vanna e Franco sperano nel ritorno dei giorni dimenticati: da due anni le ronde non si vedono più. Il nuovo nucleare non solo non li spaventa, ma non aspettano altro. ”Se scoppia non me accorgo. Divento un’ombra stampata sul muro sempre che un muro resti in piedi. Ma chi vive lontano dovrà patire mesi prima di chiudere gli occhi”. Tre cerchi stabiliscono le dimensioni del possibile disastro Il fantasma dell’incidente corre sotto ogni pensiero. Se questo è il centro del possibile boom, tre cerchi stabiliscono la dimensione del disastro. Primo cerchio, due chilometri: Caorso e i paesini della sponda lombarda. Un deserto. Secondo cerchio, 10 chilometri: Piacenza, Cortemaggiore, contaminazione alimentare. Parmigiano Reggiano e Grana Padano addio. L’ultimo cerchio arriva a Milano, la Milano avvelenata dalle polveri sottili, Milano che per respirare magari accetta il rischio del nucleare. Che tornerà fra quindici o vent’anni, non date retta a chi accorcia i programmi. Scajola distribuisce illusioni stringendo tempi impossibili. La realtà è diversa. Ma il ministro gioca con l’abitudine dei vecchi politici: quando la nuova centrale si accende non sarà ministro, ormai. E nessuno ricorderà le bugie degli anni bugiardi.