PIERGIORGIO ODIFREDDI, la Repubblica 2/3/2010, 2 marzo 2010
LO SCIENZIATO CHE NON VUOLE ANNOIARE
Il 28 febbraio 1953 James Watson e Francis Crick andarono a pranzo al The Eagle, nella Cambridge inglese, e il secondo annunciò ai commensali: «Oggi abbiamo scoperto il segreto della vita». O almeno, questo racconta il primo, che della loro scoperta è diventato lo storico ufficiale, con il suo best seller La doppia elica (Garzanti, 2004): un libro che fece scalpore quando uscì nel 1968, per il modo diretto e franco con cui racconta la corsa alla determinazione della struttura del Dna, ed espone gli stimoli «umani, troppo umani» che la guidarono.
Watson poteva permettersi di parlar chiaro, essendo divenuto a soli venticinque anni uno dei due più famosi biologi del mondo, e avendo vinto a soli trentaquattro il premio Nobel per la medicina. In seguito lui e Crick, così come la struttura a doppia elica associata ai loro nomi, sarebbero stati elevati a icone della scienza del secondo Novecento, e avrebbero goduto di una fama rivaleggiata soltanto da quella di Albert Einstein e della formula E = mc2 nel primo Novecento.
Oltre al suo primo volume autobiografico, Watson ne scrisse altri due: I geni del genio (Garzanti, 2003), e il conclusivo e provocatorio Avoid boring people, non ancora tradotto in italiano, il cui titolo è un bel gioco di parole che significa, allo stesso tempo, sia «Evita la gente noiosa» che «Evita di annoiare la gente». L´intera trilogia combina scienza pubblica e vita privata in una mistura spesso anticonvenzionale, che puntualmente ha irritato gli accademici e scandalizzato i benpensanti.
La doppia elica si snoda fra due frasi a effetto, in apertura e chiusura: «In vita mia non ho mai visto Francis Crick in vena di modestia», e «Avevo venticinque anni ed ero troppo vecchio, ormai, per permettermi di fare l´eccentrico». Ciò che sta in mezzo è un racconto quasi poliziesco della corsa alla doppia elica, attraverso la competizione tra Watson e Crick a Cambridge, Rosalind Franklin e Maurice Wilkins a Londra, e Linus Pauling a Pasadena.
Quest´ultimo, in seguito vincitore di ben due premi Nobel (nel 1954 per la chimica, e nel 1962 per la pace), era il massimo chimico vivente e il naturale favorito: quando scese in campo, propose però un modello a tripla elica, che non teneva nel debito conto i dati sperimentali a disposizione. I migliori di questi dati, nella forma di foto a raggi X ad alta risoluzione, li aveva ottenuti la Franklin, che a sua volta si era intestardita a credere che fosse prematuro costruire modelli a elica del Dna. Gli errori dell´uno e le esitazioni dell´altra permisero a Watson e Crick di battere entrambi, e arrivare per primi al traguardo.
Come, lo racconta appunto il libro di Watson, che nella versione ampliata pubblicata nel trentennale della scoperta contiene anche molti altri punti di vista. Quello di Crick, ad esempio, che confessa di aver pensato di rispondere a La doppia elica, che l´aveva innervosito, con L´elica svitata, che poteva iniziare così: «Jim è sempre stato maldestro con le mani, bastava guardarlo mentre sbucciava un´arancia». O quello di Pauling, che spiega col senno di poi perché avrebbe dovuto fare ciò che purtroppo non fece. Non c´è invece il resoconto della Franklin, che morì di cancro alle ovaie nel 1958, a soli trentasette anni, senza poter condividere il premio Nobel che andò invece a Wilkins, per le sue precedenti foto a raggi X.
chiaro che, dopo aver ottenuto un risultato così fondamentale a soli venticinque anni, dopo la primavera del 1953 Watson dovette capire che cosa fare della propria vita, scientifica e non: i tre anni seguenti non poterono che essere un anticlimax, e tali sono anche I geni del genio che li raccontano. Il titolo originale, Geni, ragazze e Gamow sottolinea che uno dei suoi problemi fu trovare la compagna della vita, dopo una lunga serie di avventure sentimentali che fa da basso continuo alla simultanea ricerca di un nuovo obiettivo scientifico su cui convogliare le sue energie da iperattivo: energie ancor oggi evidenti a chi ha l´avventura di passare anche una sola giornata con l´ottantaduenne scienziato, allietandosi nel suo ufficio per una conversazione attenta all´interlocutore, o preoccupandosi sulla sua Jaguar per una guida disattenta ai semafori.
Nel 1968, lo stesso anno che vide l´uscita del suo primo libro, Watson trovò l´anima gemella in una diciannovenne che aveva meno della metà dei suoi anni, con la quale rimane tuttora felicemente sposato. E trovò anche una nuova missione scientifica nella ricerca sul cancro al laboratorio di Cold Spring Harbour, che nei successivi quarant´anni diresse e presiedette. Come trovò l´una e l´altra, è l´argomento di Avoid boring people: il suo ultimo libro, che racconta mezzo secolo di percorso dell´uomo e dello scienziato, e distilla in un centinaio di massime le lezioni che egli ha imparato strada facendo.
Prima fra tutte quella duplice del titolo, che egli ha accuratamente messo in pratica tutta la vita, frequentando gli esponenti più stimolanti e avvincenti della comunità intellettuale, ed elargendo a profusione idee brillanti e provocazioni intelligenti. Scorrono così fra le pagine le figure più importanti della biologia dell´ultimo mezzo secolo, tutte doverosamente insignite prima o poi del premio Nobel: Max Delbrück e Salvador Luria nel 1969 per lo studio dei batteriofagi, François Jacob e Jacques Monod nel 1965 per il meccanismo di regolazione genetica, Renato Dulbecco nel 1975 per la ricerca sui virus tumorali, Wally Gilbert nel 1980 per l´invenzione di un metodo di sequenziazione del Dna, e tanti altri compagni di strada in biologia.
Ma anche tanti scienziati di altri campi, compresi due veri miti: il logico Alan Turing, inventore del computer, e il fisico Richard Feynman, genio mattacchione, entrambi catturati in fasi diverse della loro vita dalla ricerca biologica, rispettivamente sulla morfogenesi e i fagi. E addirittura artisti come Salvador Dalí, che Watson seppe ammaliare con una richiesta appropriata («La seconda persona più intelligente del mondo desidera incontrare la prima»), dopo aver visto il grande quadro intitolato Galacidalacidesoxiribunucleicacid - Omaggio a Crick e Watson: quello non lo ottenne, ovviamente, ma nel suo ufficio oggi può esibire con orgoglio uno studio per lo stesso quadro, con due piccole foto degli scienziati ritagliate da un giornale e una grande firma dell´artista, nelle dovute proporzioni.
Quanto alle provocazioni, Watson le ha lanciate nel corso di tutta la sua carriera, senza temere di essere politicamente scorretto: il mancato appoggio all´uso del virus dell´encefalite equina venezuelana come arma chimica gli costò il posto fra i consiglieri scientifici della Casa Bianca nel 1964, e l´opposizione alla brevettazione dei geni la direzione del Progetto Genoma nel 1992.
Puntualmente, il libro finisce con una difesa di Larry Summers, il rettore di Harvard costretto a dimettersi nel 2006 per la dichiarazione, «impopolare ma non infondata», che le donne sono meno atte alla matematica e alla scienza degli uomini. La giustificazione di Watson, forse falsa ma certo non banale, è che la varianza delle donne sembra essere minore di quella degli uomini: ad esempio, avere più autistici e schizofrenici a un estremo sarebbe un prezzo che i maschi pagano per avere più geni all´altro (e il genio Watson sa di cosa parla, avendo appunto un figlio schizofrenico).
Naturalmente, non c´è bisogno di accettare tutto ciò che lui dice, per essere stimolati dai suoi libri o dalla sua compagnia. Basta condividere alcuni dei suoi motti: «anche i più intelligenti possono dire stupidaggini», «mai essere la persona più furba della brigata», «meglio gli amici brillanti di quelli popolari». E, soprattutto, «evitare di annoiarsi e di annoiare»!