PIERO COLAPRICO, la Repubblica 2/3/2010, 2 marzo 2010
MILANO, L´ALTRA FACCIA DI VIA PADOVA "SIAMO CLANDESTINI, MA LAVORIAMO" - MILANO
Via Padova «non è un ghetto, né una bomba a orologeria. Pochi giorni fa al Centro di cultura islamica c´è stata una riunione a cui hanno partecipato quasi cinquanta associazioni di quartiere», dice la signora Grazia, che ci abita da quarant´anni. Via Padova è la via dove anche ieri c´erano poliziotti, carabinieri ed esercito. Hanno controllato a tappeto una novantina di appartamenti: i morti e i feriti e gli inseguimenti e le auto rovesciate non passano invano.
Ma dalle stesse strade e piazze ieri, mentre i controlli di polizia proseguivano, sono partiti anche non pochi magrebini, peruviani, centroafricani, sudamericani. Sono andati in piazza Duomo per la manifestazione, lo "sciopero nazionale", questo primo passo: mosso non si può dire in quale direzione, ma comunque mosso. «Io lavoro in un ristorante, faccio i mestieri in un condominio, divido casa con due badanti, non mi va di essere dipinta come una criminale perché non ho il permesso di soggiorno», racconta Melinda, che sta per fare causa ai datori di lavoro che la tengono «in nero». E come lei, assicura, in via Padova sono moltissimi: clandestini, ma con un lavoro. «Non siamo criminali come dice la tv», aggiunge Khaled, piastrellista con dittarella.
Forse per comprendere via Padova bisogna partire da una delle sue strade laterali meno battute, via Termopili. Qua ancora ricordano che in una casa signorile abitava in affitto Lucio Battisti, «gentilissimo, pagava il caffè a tutto il bar, forse per farsi perdonare di quando suonava la batteria con le finestre aperte». E quelli «erano i negozi di Elio il carbonaio, là c´era il calzolaio, l´elettricista, il macellaio», ma ora i negozi non ci sono più. E non c´è più nemmeno l´entrata. Via Termopili è un posto da sociologia metropolitana.
Negli ultimi dieci anni sono stati alzati piccoli muri in cemento: la parte alta della ex vetrina si è trasformata in finestra, il banco vendite e il retro sono diventati case e letti, i soffitti alti hanno permesso i soppalchi. Sono diventati case, decine di case simili, molto densamente abitate. A volte da italiani, a volte da intere famiglie arrivare da ogni parte del mondo. «E che dobbiamo fare? Una casa popolare non l´abbiamo, con i disgraziati non ci vogliamo mischiare, o fai così o resti in mezzo alla strada», dice B., un egiziano in Italia da metà degli anni Ottanta.
Tu chiamale se vuoi ristrutturazioni. Ma sono uno stravolgimento, che la giunta di Milano, il centrodestra che pretende di risolvere ogni contrasto con la polizia e le dichiarazioni, ha lasciato passare senza nemmeno rendersene conto. Il vicino mercato comunale (ingresso principale da viale Monza 54) ne paga le spese: è stato abbandonato dalla metà dei commercianti e ha il tetto sfondato dalla pioggia. La clientela è andata assottigliandosi: «Gli stranieri - dice una banconista superstite - da noi non comprano, anzi dicono che se hanno dei soldi in più li mandano a casa loro, mentre gli italiani comprano nei negozi degli stranieri della zona...». Affollati, pieni di cose del mondo, colorati, vivi: «Vuoi mangiare il miglior Khebab di Milano?», chiedono.
In molti, anche stranieri, parlano male di due condomini di via Crespi, ai numeri 10 e 12. Sono abitati da immigrati al 90 per cento: hanno, stando a un vicino, quasi 230mila euro di debiti, e dalle finestre spuntano decine di antenne paraboliche. «Noi - spiega un negoziante italiano, pregando di restare anonimo - vorremmo dare un suggerimento ai politici. Invece di tartassare quelli che lavorano, dovrebbero fare qua un censimento in quelle case. Se non lavori, come mai hai questo telefonino superlusso? Non è che spacci? Sono domande retoriche, io vedo la gente per bene, è stanca, ha la calcina sui vestiti, ma guarda questo. Non vedi a occhio nudo che è un fetente? Rimpiango, sì, rimpiango quando c´erano i criminali italiani. Ti chiedevano il pizzo, ma stavi tranquillo».
Sentire frasi come questa, a Milano, dovrebbe preoccupare più che altrove. Ma in realtà, e questa è l´accusa corale, sembra non preoccuparsi nessuno delle periferie. E nessuno solleva polveroni, soprattutto sotto elezioni. Un esempio di questo silenzio? Basta andare in fondo a via Padova, a Cascina Gobba. Negli anni della cosiddetta «Milano da bere» qua c´era una grande bisca a cielo aperto, ora sta spuntando una moschea, con una sala forse da millecinquecento posti, costruita da fedeli islamici che si sono scocciati dei «non so» del Comune. Si tassano, costruiscono, pregano. E la Lega che non vuole moschee? Dispersa.
Via Padova è forse la metafora collettiva dell´arte d´arrangiarsi, della navigazione a vista. E, dicono molti papà italiani, del «si salvi chi può, i nostri figli da qua se ne stanno andando tutti». Ecco perché in piazza Duomo c´erano stranieri e italiani arrivati da via Padova: per dire «noi ci siamo». Per portare lo striscione: «Ma quali criminali, ma quali clandestini, ecco i nuovi cittadini».