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 2010  marzo 02 Martedì calendario

FLAIANO, UN MARZIANO IN ITALIA

Il 5 marzo 1910 nasceva a Pescara Ennio Flaiano, intorno al quale è andata crescendo una leggenda ricca di aneddoti. citato a proposito degli avvenimenti più diversi, come se si fosse scoperto nei suoi libri un giacimento sterminato a cui attingere per interpretare tutti gli aspetti del costume e del carattere degli italiani. La sua satira è di straordinaria attualità. Sembra scritto oggi, che i giornali sono pieni di denunce sulla corruzione, l’apologo intitolato I ladri (favola arguta) apparso sul «Mondo» nel 1960, che comincia così: «Quando i ladri presero la città, il popolo fu contento, fece vacanza e bei fuochi d’artificio. Come primo atto del loro governo, i ladri riaffermarono il loro diritto di proprietà. Su tutti i muri scrissero: "Il furto è una proprietà". Poi si sparse la voce che i proprietari rubavano. I ladri ritennero inutile ogni smentita ufficiale: erano stimati per gente dabbene, patriottica, ladra, onesta, religiosa. Ora, insinuare che i ladri fossero ladri sembrò assurdo. Il tempo trascorse, i furti aumentavano. Una mattina, per esempio, ci si accorgeva che era scomparso un palazzo dal centro della città. Poi sparirono piazze, alberi, monumenti, gallerie con i loro quadri e le loro statue, officine con i loro operai, treni con i loro viaggiatori, intere aziende, piccole città. Quando i ladri ebbero fatto sparire ogni cosa, cominciarono a derubarsi tra di loro e la cosa continuò finché non furono derubati dei loro figli e dei loro nipotini. Ma vissero sempre felici e contenti».
Lo conobbi nel maggio del 1949 nella redazione de «Il Mondo» dove svolgeva le funzioni di redattore capo, un incarico che tenne fino al 1953. Era seduto su uno sgabello girevole davanti a un cavalletto e stava disegnando il menabò. Sembrava che dipingesse un quadro e associo sempre Flaiano a questo gesto da pittore. Nel salone centrale, il suo più caro amico Mino Maccari faceva le vignette e intanto si scambiavano battute accompagnate da
Al «Mondo» Flaiano si alternava con Pannunzio nella scelta delle foto, le cosiddette «foto da "Mondo"». Uno dei suoi grandi meriti è aver dato, per la prima volta, ai fotoreporter la dignità di giornalisti e quasi di scrittori e di aver capito l’importanza dell’immagine come mezzo autonomo di espressione. Finito di impaginare il menabò, in tre quarti d’ora scriveva la critica cinematografica: non era dotta, saccente, non faceva citazioni.
Lasciò «Il Mondo» per lavorare nel cinema, scrisse un centinaio di sceneggiature. Ha dato un contributo fondamentale a Lo sceicco bianco, I vitelloni, La dolce vita e Otto e mezzo: ancora si discute se le idee di questi film siano più sue che di Fellini. Ricordo che quando preparavano La dolce vita, Flaiano e Fellini erano come il gatto e la volpe di Pinocchio: stavano appostati al caffè «Doney» a via Veneto e giravano in Seicento di notte per cogliere spunti dalla realtà. Alternava l’attività di sceneggiatore con quella di critico e giornalista, collaborando oltre che improvvisi silenzi. Non per niente una di quelle preferite era «in due si tace meglio».
Era già uno scrittore affermato. Il Premio Strega era nato nel 1947 e il primo vincitore fu proprio Flaiano con il romanzo Tempo di uccidere. Ebbe un grande successo, fu tradotto in diverse lingue ed è stato più volte ristampato, ma è rimasto il suo unico romanzo: è stato sempre un cruccio per lui l’essere considerato soprattutto sceneggiatore di film, autore di battute e calembours. al «Mondo», all’«Europeo», all’«Espresso» e al «Corriere della Sera».
L’insofferenza, la noia esistenziale, l’esigenza di libertà interiore furono il terreno fecondo per le sue intuizioni sulla società italiana che riversò nei libri Diario notturno, Una e una notte, Il gioco e il massacro, Melampo, Ombre bianche, dove nel racconto A Bombay c’è un vero fuoco di artificio splendente di paradossi e aforismi; tra quelli postumi: Autobiografia del blu di Prussia, Il cavastivale, La solitudine del satiro, La valigia delle Indie.
Il Flaiano popolare è quello del divertissement, ma quello più vero è quasi nascosto, sconosciuto. Il suo vagare per Roma era sintomo di una inquietudine che nasceva dal contrasto tra il pessimismo ispirato dalle vicende della sua infanzia di collegiale e di giovane provinciale arrivato povero nella capitale, dall’infelicità per la figlia afflitta da encefalopatia, e l’aspirazione alla giustizia, alla verità, alla virtù. «In Italia», si legge nel Diario notturno, «non esiste la verità. La linea più breve tra due punti è l’arabesco. Viviamo in una rete di arabeschi». Su via Veneto scrisse Un marziano a Roma, una parabola satirica dove immagina che un marziano, sbarcato da una nave spaziale a Villa Borghese, sia accolto con grande solennità e ricevuto persino dal Papa. A lungo andare però ai romani viene a noia finché una notte, a via Veneto, dove ai tavolini dei caffè si attardano i nottambuli, il marziano è accolto da un coro sbeffeggiante e una pernacchia. Non gli resta che risalire sull’astronave e partire. Dal racconto trasse l’opera teatrale omonima, rappresentata al Teatro Lirico aMilano il 23 novembre 1960 da Vittorio Gassman: fu un fiasco disastroso. Maccari, che assisteva con me alla prima, gli disse: «Ennio, l’insuccesso ti ha dato alla testa!». Nemmeno in occasioni negative si rinunciava alla battuta. Adesso è rappresentata invece con successo insieme con le altre quattro sue commedie, tra cui La conversazione continuamente interrotta.
Scrisse Natalia Ginzburg: «Nei suoi diari, appunti, versi, frammenti ha raccontato come la stupidità cresce e deteriora il mondo». Dopo essere stato colpito nel 1971 da un primo infarto, stava acquistando una serenità quasi rassegnata. La notorietà cominciava a lambirlo e da giornali come il «Corriere» riceveva la giusta gratificazione. Ma, quando avrebbe potuto godere di queste gioie, il 20 novembre 1972, la morte lo sorprese.
Giovanni Russo