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 2010  marzo 01 Lunedì calendario

UNA VITA DA PLACCATORI

In inglese si scrive tackle, in italiano si traduce sopravvivenza.
«Nel 2000 ci siamo trovati gettati nel Sei Nazioni, fra le squadre più famose del mondo», spiega Mauro Bergamasco, il sorriso allegro sotto la zazzera da guerriero e il naso con la chicane. «Placcare era un forma di difesa minima, un rifugio. Ci aggrappavamo agli avversari per non farci trascinare via, per non incassare troppi punti». Perché quando le cose buttano male, quando hai le spalle al muro e rischi il bradisismo, in tutti gli stadi del mondo, di qualsiasi sport si tratti, dalle tribune iniziano a gridartelo nelle orecchie: «De-fense, de-fense!». Tieni duro, non mollare. We shall never surrender, non ci arrenderemo mai, era lo slogan rauco, il mantra scatarrante di Winston Churchill che fermò l’attacco nazi fuori dall’area di rigore british nella Seconda Guerra Mondiale. Churchill che diceva che gli italiani «vanno alla guerra come fosse partita di calcio, e alla partita di calcio come fosse una guerra». Esatto, proprio così.
Sul nostro tricolore sportivo da sempre è stampata una frase: primo, non prenderle. La maglietta di Maradona che si sbrindellava fra gli artigli di Gentile, i gomiti di Dino Meneghin che disinfestavano l’area sotto canestro. I tacchetti dissuasori di Benetti, l’anima a saracinesca di Zoff e Buffon, l’infinito, infallibile palleggiare di Corrado Barazzutti. No pasaran. Nello sport noi italiani siamo sempre stati un popolo di estremi difensori e di difensori estremi, di gente che inventa trincee e architetta sgambetti
Nel rugby meno. Almeno fino ad un anno fa. Per decenni abbiamo recitato più da corsari che da fanti, più da solisti che da orchestra. La rivoluzione di Nick Mallett, il nostro ct sudafricano, è partita proprio dalla difesa. « la frase che Nick ci ha detto fin dall’inizio - racconta Mauro Bergamasco, terza linea, l’uomo-Maginot, il cavalletto di Frisia umano -. Chi non ha voglia di placcare non può giocare in questa squadra». Mallett l’ha sempre pensata così. Anche quando da terza linea giocava lui, nel Rovigo di primi Anni 80: una belva in campo, e già un mezzo allenatore con la penna in mano, opinionista di un foglio di appassionati, Polesine XV, su cui teneva una rubrica. Dopo un derby perso con il Petrarca strigliò i compagni: «Abbiamo perso perché non abbiamo placcato abbastanza, anzi, perché abbiamo rinunciato proprio a placcare». E come esempio ai compagni portava Patrizio Zanella, tre quarti centro: uno che magari non correva velocissimo, «ma che piazzava certi placcaggi secchi che ti lasciavano lì, senza fiato», come racconta Tony Liviero, storico e teorico del rugby. «Anche Mauro è così, e probabilmente non è un caso che i Bergamasco abbiano due nonni e una mamma rodigina: per placcare bene devi possedere anche una dose di spavalderia un po’ grezza, ruspante».
Il tackle, il placcaggio è il gesto di base del gioco, la croce dove bisogna passare. Placcatore abilissimo era Ivan Francescato, la leggenda di ieri, il centro dalla finta geniale. Placcatore sublime, di quantità e qualità, è Mauro Bergamasco, il mito di oggi: «Cosa fa di un rugbista un grande placcatore? Ci vuole tutto: aggressività, velocità, tempismo, tecnica. Ma quello che fa la differenza è l’attitudine mentale. Se non te lo senti dentro, non c’è nulla da fare».
Il tackle che Mauro ricorda più volentieri è quello piazzato due anni fa sui muscoli svelti di Brian O’Driscoll, il capitano-guru dell’Irlanda: «Fu una questione di azzardo, ma nell’arte del placcaggio c’entra anche la psicologia. Devi leggere al volo lo schieramento avversario, intuire dove andrà il tuo avversario e aspettarlo lì. Poi c’è la tecnica: una catena biomeccanica fatta da braccio, spalla e gamba che deve scattare al momento giusto, con sincronia ed equilibrio». Come fece un biondino in maglia bianca qualche anno fa, leggendo benissimo uno scarto di Mauro: «Ero agli inizi della mia carriera internazionale, giocavamo contro l’Inghilterra. Al fondo di una touche partii palla in mano e bang!, mi schiantai contro un muro. Mi rialzai, intontito, vidi che a fermarmi era stato Jonny Wilkinson. E capii che da quella parte sarebbe stato difficile passare. Jonny è famoso per i calci, ma ha una tecnica perfetta anche nei placcaggi».
Nell’Italia di Mallett ormai placcano tutti, avanti e tre-quarti. Mauro Bergamasco, ma anche Totò Perugini, il centro Garcia, la seconda linea Geldenhuys, il mediano di apertura Gower, pescato da Mallett proprio per il suo passato nel rugby a 13, dove placcare è come respirare. La vittoria della Scozia l’hanno firmata Canavosio con la meta e Mirco Bergamasco con i calci, ma è nata anche dalle due maree blu fermate a un palmo dalla meta: il pilone scozzese Jacobsen artigliato la prima volta da Mirco, stretto da tenaglia disperata di Gower e Ghiraldini la seconda. Difesa, difesa.
«Attenzione però - spiega Mauro -. La difesa nel rugby è un concetto un po’ diverso rispetto al calcio, chi difende bene in realtà sta attaccando. Si può placcare anche cadendo indietro, ma il placcaggio vero, efficace, è quello che fai avanzando, salendo nel campo, ribaltando l’avversario e strappandogli la palla. Per questo non sono d’accordo con chi dice che noi applichiamo il catenaccio al rugby. Catenaccio significa chiudersi, isolarsi, noi abbiamo dimostrato nelle ultime due partite di saper anche aprire il gioco. Per questo se mi chiedono in quale calciatore mi riconosco rispondo Gattuso: perché io nel mio ruolo placco per spezzare il gioco degli avversari e insieme per costruire il nostro, cucio difesa e attacco correndo per chilometri e chilometri, proprio come fa lui».
Ieri inglesi e francesi ci sfidavano nell’uno-contro-uno con leggerezza e arroganza. Oggi la nostra linea raramente si fa bucare, si muove come un organismo compatto: infatti di mete, in tre partite del Sei Nazioni 2010, ne abbiamo incassate appena tre. Placcare significa anche non aver tempo di sentire la paura: «Spalla, zigomo, naso, mascella, sterno, piede… - elenca Bergamasco -. Con tutti i miei infortuni ci si fa un manuale di anatomia. Ma se pensi a cosa puoi farti, non entri nemmeno in campo». Placca, Italia, placca.