Marco Belpoliti, La Stampa 1/3/2010, pagina 29, 1 marzo 2010
LA RIVOLTA IN MENSA
Venerdì scorso la mamma di Francesca ha accompagnato la figlia alla scuola materna e ha appeso in corridoio un sacchetto bianco su cui aveva scritto a pennarello: «Schiscetta Day». Dentro un panino; il regolamento vieta di introdurre alimenti non autorizzati nella scuola pubblica. Anche la mamma di Ginevra e il papà di Vittorio hanno appeso il loro sacchetto bianco, e così altre mamme, papà e tate. Si tratta di una protesta per il cibo che è distribuito ogni giorno ai loro figli durante il pranzo.
A Milano, dove la protesta è nata, da tempo i genitori contestano la scarsa qualità del servizio, in particolare di polpette, pizze e lasagne: immangiabili. Le crocchette di totano, poi, ha detto il papà di Federico, nelle settimane scorse sono passate direttamente dal piatto alla pattumiera. Questione di gusti? Mica tanto. Lo scorso settembre, «il Sole-24 Ore», segnalava che per anni sono stati serviti da «Milano Ristorazione», l’azienda che detiene il servizio, totani e seppioline con i piselli, che restavano immancabilmente non mangiate. Dato che ogni giorno questa società serve sessantamila studenti, si può presto fare il conto dello spreco; ora, questi due piatti non figurano più nel menù.
A Milano, inoltre, dicono i genitori, sono state quasi raddoppiate le rette per le mense, senza che crescesse la qualità dei prodotti e del servizio. Le mense scolastiche, che in Italia sono utilizzate da centinaia di migliaia di bambini e ragazzini, sono spesso sotto la qualità che ciascuno di noi chiede a un qualsiasi ristorante. Se fossero dei ristoranti, le mense sarebbero deserte, e chiuderebbero ben presto i battenti. Ma dato che si tratta nella maggior parte dei casi - Milano docet - di un monopolio, nessuno può farci niente. E pensare che si tratta di bambini. Il problema è quello della appetibilità dei cibi; la mensa scolastica resta ancora il regno del cibo industriale, per quanto si sia riscoperto il biologico, e persino il menù regionale. All’inizio degli anni Ottanta, Piero Camporesi, in Alimentazione, folclore, società, si scagliava contro il cibo dei self-service, e descriveva l’alimento portato in tavola nelle mense, e non solo lì, come «un derivato alimentare degli esteri vinilici, nato sotto il segno dell’isomorfia fra materie plastiche e materie alimentari». Sono passati trent’anni, ma, come mostra la protesta milanese, siamo ancora a quel punto.