Guido Olimpio, Corriere della Sera 01/03/2010, 1 marzo 2010
L’INTELLIGENCE ITALIANA NELLA PALUDE AFGHANA
In un video postumo, diffuso ieri dai talebani, Khalil Al Balawi è tornato a spiegare la sua clamorosa azione. A fine dicembre, con una cintura esplosiva, ha annientato un team della Cia e ucciso uno 007 giordano nella base di Khost. Il vero obiettivo – ha spiegato il terrorista’ era l’ufficiale arabo «ma un dono di Allah ci ha portato delle prede di grande valore: gli americani».
Quindi il kamikaze, che per mesi aveva collaborato con gli alleati, si è vantato di averli ingannati fornendo loro delle informazioni senza valore. Diversa la valutazione della Cia, per la quale Al Balawi era una talpa preziosa. Ma ciò che conta è la conclusione della storia, con il terrorista giordano usato per sferrare un colpo micidiale.
Lasciando da parte la propaganda islamista, è chiaro che i militanti hanno un loro apparato di contro-intelligence. Raccoglie dati sull’avversario, contrasta le spie (non si contano le decapitazioni) e punta ai «controllori», cercando di farli fuori. Ed è quello che è avvenuto con il valoroso ufficiale dell’Aise, Pietro Colazzo, caduto pistola in pugno nell’attacco di Kabul.
Gli agenti come l’italiano sono «le prede di grande valore». Gli estremisti, che possono contare su un buon numero di informatori dietro le linee Nato, hanno fatto la loro inchiesta. Sapevano di certo che al Park Residence c’erano anche gli 007 del nostro Paese. Quello che non sapevano gli può essere stato passato da qualcuno. Chi? A Kabul agisce il network Haqqani. Non è una semplice banda talebana, ma un’organizzazione con rapporti con le intelligence della regione. Legami che per gli «anziani» risalgono alla lotta contro i sovietici. Allora avevano alle spalle sauditi, americani e pachistani. Oggi della triade è la terza testa’ l’ultima’ a suscitare dei dubbi. Se il vertice dell’Isi afferma di essere al fianco degli occidentali, non si può dire lo stesso di molti agenti – rinnegati o in servizio – il cui cuore batte per gli islamisti.
Affinità ideologiche, religiose, politiche a volte impastate con interessi economici prodotti dai traffici che prosperano nella regione. Ecco perché il singolo agente si trasforma nel bersaglio di un «target killing». Gli omicidi mirati possono essere condotti con il classico sistema del sicario con la pistola silenziata. Ma anche con un attentatore suicida al volante di un’auto-bomba. Quello che conta è l’esito della missione.
Chi ha assassinato Colazzo non era un guerrigliero «spara e prega», di quelli che non sanno dove stanno tirando con il Kalashnikov. L’attentatore, probabilmente, faceva parte di un nucleo di militanti guidati da personaggi preparati. Hanno studiato l’intelligence, letto i manuali Nato tradotti in arabo, ricevuto un training specifico, seguito le centinaia di consigli – anche online – su come contrastare gli 007, primo bersaglio da abbattere a Kabul come ad Algeri.
Ricordiamoci cosa hanno cercato di fare i qaedisti yemeniti in estate: un complotto con un sofisticato ordigno per ammazzare il capo della sicurezza saudita, il principe Nayef. Perché, come ha scritto un ideologo jihadista nelle «istruzioni per l’uso» destinate ai compagni, «la guerra è un trucco».
G. O.