Francesca Barbieri, Il Sole-24 Ore 1/3/2010;, 1 marzo 2010
L’EQUIT NON TROVA SPAZIO IN BUSTA PAGA
Una frattura del 20 per cento. Non c’è parità tra i sessi, almeno a giudicare dalla busta paga. Ogni mese le lavoratrici italiane ricevono in media 1.070 euro netti, contro i 1.334 riconosciuti ai colleghi maschi. Una nuova cattiva notizia per le donne, che da sempre faticano a entrare e soprattutto ad affermarsi nel mercato del lavoro. Basti pensare che oggi appena il 46,1% ha un’occupazione contro il 68,9% degli uomini: una distanza abissale, tra le più ampie d’Europa, dove le occupate son in media il 59 per cento.
Le lavoratrici dipendenti in base a un’elaborazione condotta dal Centro studi Sintesi su dati Istat - hanno un livello di istruzione più alto, al quale però non corrisponde una migliore retribuzione. Non basta nemmeno la laurea per riuscire a strappare stipendi superiori ai maschi. Le graduate sono il 20,3% delle addette, mentre per gli uomini la percentuale si ferma all’11,5 per cento. I guadagni netti delle prime però sono più bassi del 23%, dislivello che scende al 21% per le diplomate e risale al 28,3% per chi ha la licenza media.
Non si arriva alla parità nemmeno se si considera la posizione nella professione. «Oltre il 60% delle donne - spiega Catia Ventura, direttrice del Centro studi Sintesi - ricopre posti impiegatizi o da quadro, ma con il 17% di guadagni in meno rispetto agli uomini». Per le operaie c’è un saldo negativo del 30%, mentre le distanze si riducono sensibilmente (-8%) tra i dirigenti, cui fa da contrappeso una marginale presenza delle donne ai vertici aziendali (1,8% di tutte le occupate).
Quali sono le ragioni di questo gap salariale? «In primo luogo, la diffusione del part-time risponde Maria Luisa Bianco, ordinario di Sociologia all’università del Piemonte Orientale ». Quasi un’occupata su cinque, infatti, è a tempo parziale. E il ritardo è maggiore per le donne tra i 35 e i 45 anni (-21,7%), che probabilmente rallentano il ritmo dell’attività lavorativa per curare i figli.
«Un fenomeno- precisa Bianco- che comunque è meno diffuso rispetto ad altri paesi e da solo non può certo rendere conto del divario». Molte ricerche mostrano che la colpa va addebitata alla «segregazione occupazionale - sottolinea Bianco sia quella orizzontale fra settori e mansioni, sia quella verticale fra livelli nella scala gerarchica ». Le donne sono concentrate nei settori in cui i salari sono inferiori e nelle mansioni meno retribuite, così come ai gradini più bassi degli inquadramenti contrattuali.
Un esempio evidente è dato dall’area istruzione e sanità,dove si concentra quasi il 30% delle occupate, che in media hanno una busta paga netta del 21,4% più bassa rispetto ai colleghi maschi. Non è difficile ipotizzare che le infermiere professionali e gli operatori sanitari siano prevalentemente donne, mentre fra i medici quasi tutte le posizioni meglio retribuite negli ospedali e nelle Asl siano appannaggio degli uomini. Nella scuola la presenza delle donne diminuisce man mano che cresce l’età degli allievi insieme ai livelli retributivi: le quote rosa sfiorano il 100% nella scuola d’infanzia e calano a percentuali ben minori all’università. In ambito accademico, peraltro, si ripresenta nuovamente la segregazione verticale, perché le donne- che rappresentano la maggioranza dei dottori di ricerca - sono poco più del 10% dei professori ordinari.
«L’operare di questi meccanismi - afferma Bianco - fa sì che anche in un settore apparentemente del tutto egualitario dal punto di vista retributivo, alla fine le donne abbiano redditi nettamente inferiori».
E spostando il focus sul territorio, il sud evidenzia gap salariali più contenuti rispetto al nord. I divari massimi si registrano nel Friuli Venezia Giulia (-22,7%) e nel Veneto (-23,3%), mentre la situazione è più attenuata nelle Marche (-14,3%), in Calabria (-14,6%) e in Sicilia (-15,7%), con le rimanenti regioni che si piazzano tra il -18 e il -22 per cento.
«La spiegazione- dice Daniela Del Boca, docente di economia politica all’università di Torino e direttore del centro Child- è dovuta a una minore possibilità di accesso delle donne meridionali al mercato del lavoro ». Si verifica così una selezione che porta solo le più istruite ad avere reali possibilità d’ingresso, mentre le altre restano fuori dal mondo produttivo.
«In forza di questa maggiore preparazione e selezione - conclude Catia Ventura - sono corrisposte retribuzioni più alte, ma resta il fatto che il tasso di occupazione femminile in certe regioni del Mezzogiorno non supera il 30 per cento». Un abisso rispetto all’obiettivo di Lisbona del 60 per cento • CON L’ARRIVO DEL TERZO FIGLIO LASCIA IL POSTO UNA MAMMA SU TRE - Solo in Svezia e Slovenia l’arrivo dei figli è una molla che spinge le donne a lavorare di più. Nel resto d’Europa, invece, le madri si allontanano dai luoghi di lavoro. E in Italia, con l’arrivo del terzo bebè addirittura una mamma su tre lascia il posto. A scattare la fotografia è il portale
www. famigliaonline. it, che ha elaborato gli ultimi dati Ocse sull’occupazione femminile.
Un salto di oltre due punti percentuali separa il livello di partecipazione delle donne europee tra i 25 e i 49 anni da quello delle mamme con figli al di sotto dei sedici anni: il primo sfiora il 70%, mentre il secondo è fermo al 67,4 per cento. Agli antipodi troviamo la Svezia, dove il tasso di occupazione femminile cresce del 3% quando la famiglia si allarga (da 79,8 a 82,5%), e la Repubblica ceca, dove invece precipita di quasi otto punti (da 69,2 a 61,5 per cento). In Slovenia il passo in avanti è dell’1%, mentre l’arrivo di un bebè è indolore nel Portogallo (-0,1 per cento).
Scoraggiate le madri tedesche (-5,2%) e quelle inglesi (-4,2%), in misura maggiore rispetto alle italiane (-3,3 per cento). «Una magra consolazione commenta Massimo Chieregato, ricercatore di www. famigliaonline. it - visto che non serve certo a evitare all’Italia la maglia nera a livello europeo».
Il tasso di occupazione femminile del nostro paese è infatti il più basso di tutti gli stati europei, pari al 58,9% nel 2008 per le donne tra 25 e 49 anni. Siamo il fanalino di coda, lontani anche da realtà di paesi entrati da poco nell’Unione europea come Polonia e Romania, che mostrano tassi di occupazione delle donne intorno al 70 per cento.
«Molte mamme italiane- rileva Chieregato - abbandonano il posto all’arrivo del secondo figlio e ancora di più se la prole sale a tre». Il tasso di occupazione scende al 53,6% per le donne con due figli, per sprofondare al 41,1% in caso di tre eredi. E se in Europa cresce di oltre il 5% la quota di telelavoro tra le mamme con tanti figli rispetto a chi non ne ha (dal 12,2 al 17,5%), in Italia l’aumento è di appena due punti: da 4,9 a 7 per cento.