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 2010  febbraio 28 Domenica calendario

I SERVI PADRONI DI HAITI

Di Haiti si è recentemente parlato dovunque a causa del devastante terremoto che l’ha colpita, ricordando che è una delle nazioni più povere del mondo. Eppure nel Settecento era il paese più ricco tra tutte le colonie europee, il «giardino dei Caraibi », il centro della produzione e della lavorazione della canna da zucchero, importata già nel 1493. Per mezzo milione di africani ivi trapiantati con la forza era però anche il luogo di una crudele schiavitù.
L’isola fu un’altra volta al centro dell’attenzione mondiale, quando gli schiavi neri si ribellarono. Ciò avvenne in almeno due fasi. Dapprima nel 1791, allorché, sulla spinta delle idee rivoluzionarie, indussero i commissari francesi a proclamare l’abolizione della schiavitù nell’isola. Un ex-schiavo, il generale Toussaint Louverture, non solo guidò allora l’esercito vittorioso dei neri nel respingere gli invasori inglesi, ma promulgò nel 1801 la Costituzione più democratica del suo tempo, che estendeva i diritti umani a tutti i cittadini senza distinzione di razza o di ceto sociale. Nel 1802, nel tentativo di imporre nuovamente il Code noir di Luigi XIV (1685), che regolava la schiavitù anche nelle forme più atroci, Napoleone fece arrestare Louverture, morto in carcere l’anno dopo. Come reazione, nel 1804, il nuovo capo militare, JeanJacques Dessalines, adottando il motto «Libertà o morte», decretò l’indipendenza dalla Francia. Nel 1805 fece poi sterminare l’intera popolazione bianca, fondando un "impero" di soli cittadini neri, il primo Stato indipendente creato da ex-schiavi.
L’evento ebbe in Europa una grande risonanza,specie sul piano di un’opinione pubblica colta, orientata da giornali e riviste. Nello spiegare le rivoluzioni di Haiti un ruolo determinante, ebbe «Minerva», la rivista del tedesco Archenholz, letta, oltre che da Lafayette, da Goethe, Schiller e da altri rappresentanti dell’intellighenzia tedesca. Anche Hegel, si sa, era un suo lettore, che aveva conosciuto personalmente uno dei principali collaboratori, Oelsner.
In questo libro Susan Buck-Morss approfondisce ampiamente, connettendoli al problema della storia universale, i temi trattati nell’articolo pubblicato nel 2000 e tradotto in italiano con il titolo Hegel e Haiti.
Schiavi, filosofi e piantagioni: 1792-1804 (comparso nel volume di saggi Spettri di Haiti. Dal colonialismo francese all’imperialismo americano,
a cura di Roberto Cagliero e Francesco Ronzon, Verona, Ombre Corte, 2002). La sua tesi è che Hegel era ben consapevole del fatto che gli schiavi haitiani accettavano la morte per ottenere la libertà, per non essere più cose nelle mani dei loro proprietari. Nella famosa (ma, aggiungo, inesistente in quanto tale) " dialettica servo-padrone" la loro ribellione avrebbe dovuto capovolgere la scena iniziale in cui lo schiavo è, appunto, colui che preferisce servire/servare la propria vita,
mentre il padroneè libero in quanto l’ha rischiata. Hegel avrebbe, di conseguenza, taciuto questorovesciamento e troncato ex abrupto il relativo capitolo della Fenomenologia
dello spirito, sia per motivi politici (era un ammiratore di Napoleone), sia per ragioni, che non sembrano molto pertinenti, di legami con la Massoneria. difficile dimostrare la presunta autocensura da parte del filosofo, visto che il taglio dell’opera va in direzione completamente diversa e che il tema della rivoluzione di Haiti sarà successivamente trattato nelle lezioni di Heidelberg e di Berlino. L’analisi della BuckMorss è comunque affascinante e contiene aspetti da approfondire.
Il contributo più prezioso del libro sta, tuttavia, nel mostrare il peso che gli avvenimenti di Haiti ebbero nella costruzione dell’identità dell’Europa e, soprattutto, delle sue classi subalterne, e, dall’altro, nel fornire uno schema per una ripresa dell’idea, a lungo abbandonata, di una storia universale e di una sua possibile interpretazione filosofica. Poiché la schiavitù moderna delle colonie è basata sullo stesso principio e sugli stessi meccanismi economici della "schiavitù salariata" europea, cosa distingue lo schiavo che lavora nelle piantagioni di zucchero, di caffè o di tabacco dai lavoratori "liberi" che si consumano con bassi salari nelle miniere di carbone inglesi o nelle saline del Continente? Solo l’essere riusciti a far credere che in Europa non esista la schiavitù, ma soltanto la volontaria sottomissione a un lavoro duro e mal retribuito che si può anche rifiutare: la libertà come scelta di non morire di fame. La schiavitù non nasce, dunque, tanto dal razzismo: è piuttosto il razzismo a scaturire, in genere, dalla schiavitù, in particolare nel periodo in cui si cerca con ogni mezzo di separare gli operai e gli esclusi europei dagli schiavi delle colonie.
Del resto, la moderna fabbrica ( factory) è un’invenzione coloniale. Designava in portoghese ( feitoria ) un emporio, quale testa di ponte sulle cose dell’Africa e dell’Asia per il commercio transoceanico. Gli inglesi adottarono questo termine e perfino Manchester nel 1815 non era tanto una città di fabbriche (che stavano per lo più nei dintorni), ma un mercato all’ingrosso, un luogo di scambi e di distribuzione, ma non di produzione.
La coltivata separazione tra schiavi salariati e schiavi coloniali ha impedito di pensare a una storia comune dell’umanità. Non ha, infatti, permesso di vedere la "porosità" che accomuna gli esseri umani dietro i clichè della razza o della distinzione delle zone geografiche, una porosità che si presenta embrionalmente già nel "proletariato atlantico": marinai, pirati, schiavi, soldati, capaci nei Caraibi di auto-organizzarsi in comunità multi-etniche (metà dei marinai della flotta di Sua Maestà Britannica non erano inglesi, gran parte dell’esercito mandato da Napoleone ad Haiti era costituito da polacchi, i "negri d’Europa", e da tedeschi).
La Costituzione di Toussaint Louverture ha, in tale prospettiva, un significato che trascende le vicende locali e assurge a valore universale, proprio perché è stata inclusiva, ha concesso gli stessi diritti a bianchi, mulatti e neri, a cristiani, animisti e musulmani (lo erano circa il quattro per cento degli schiavi). Eppure anch’essa ha un valore relativo ed è stata soggetta a una brutale cancellazione, come accade tutte le volte che, per rivendicare la loro libertà, gli oppressi si trasformano in oppressori. Serve, comunque, a mostrare una tappa della lunga, infinita marcia del genere umano per rendere "porose" tutte le forme di separazione e includere tutti gli uomini in un comune sforzo di allargamento dei diritti.