Serena Danna, Il Sole-24 Ore 28/2/2010;, 28 febbraio 2010
UNA CARTA DI CREDITO CONVERTIR L’ISLAM
Durante la settimana, al Caffé Mavi di Abdi Ipekci Street, per ordinare un D raki, popolare aperitivo all’anice, si possono impiegare anche cinquanta minuti. All’ora del tramonto,decine di giovani avvocati, designer e commercianti si riversano nel bar di Nisantasi, quartiere alla moda di Istanbul, per discutere di Maometto e di Europa. Sono i nipotini diAtatürk, con l’applicazione per il Corano sull’iPhone e il passaporto in tasca, definiti dal professore iraniano Vali Nasr la nuova «classe media islamica » che riscatterà i musulmani dal fondamentalismo religioso.
Nel suo libro Forces of Fortune ( Simon & Schuster, 2009), il professore di politica internazionale all’Università Tufts di Boston scrive che solo una rivoluzione commerciale a opera del ceto borghese potrà liberalizzare il Medio Oriente. «La grande battaglia per la libertà deve essere combattuta con il business e il capitalismo », afferma Nasr, da qualche mese nella squadra dei consulenti della Casa Bianca per curare le tormentante relazioni con l’Iran di Ahmadinejad.
Racconta che negli anni Sessanta, nei grandi Stati a maggioranza musulmana come Turchia, Iran e Pakistan, meno di un terzo della popolazione viveva in città, e di questi solo il 6% poteva considerarsi middle class. «Oggi due terzi della popolazione vivono in aree urbane: in Pakistan la classe media ha raggiunto il 15% mentre in Turchia ha superato il 30%».
Si distinguono dalla classe media "statale" esplosa nella metà del Novecento: «secolare, moderna, decisa a cambiare il mondo musulmano». stata fondamentale per le «trasformazioni socioeconomiche avvenute tra il 1930 e il 1970 in molti Stati di fede musulmana». Il punto è che era dipendente dallo Stato, «lontana dall’economia di mercato e quindi incapace di generare ricchezza ».Non era "borghese".La parola d’ordine della nuova middle class è «commercio globale ». Un esercito di mezzo miliardo di consumatori che «vedono nell’Islam una bussola morale e non uno strumento di azione politica », dove «la cultura conservatrice e profondamente religiosa si fonde con il desiderio di migliorare la qualità della vita».
Insomma, un «altro Medio Oriente», come amava ripetere Bill Clinton, che preferisce i discorsi sul «giusto cammino della fede » dei predicatori liberal dell’egiziana Ana Tv agli imperativi morali dello ayatollah Khamenei, il televangelista Amr Khaled a Bin Laden versione YouTube. Non chiedono solo piatti di kabsa e miscele arabe diffusi in tutto il mondo, ma soprattutto di esportare «educazione, finanza, haute couture e
spettacoli islamici».
Vasr ricorda che sono più di 300 le banche islamiche, in 75 paesi, con un giro di affari di 500 miliardi di dollari.
«Certo,il divieto di fare interessi e l’obbligo di investimenti socialmente responsabili, come previsto dal Corano, impediscono un reale sviluppo della finanza islamica. Ma la sua esistenza dimostra l’interesse della classe media per gli affari, la voglia di partecipare alla finanza globale».
Per Homi Kharas, esperto di economia globale e sviluppo presso il Brookings Institution di Washington Dc, «la mancanza di finanza non è un ostacolo allo sviluppo degli Stati di fede islamica». Kharas, che ha lavorato per 30 anni alla Banca mondiale come esperto di regione indiana e di Asia orientale, sostiene che «molti occidentali credono che la crescita dell’Asia dipenda dall’export, mentre in realtà, soprattutto per quanto riguarda l’elettronica, l’Asia è un grande importatore. Fondamentale è stata l’apertura al commercio, ancora una volta la spinta capitalistica della classe media».
Nasr, che ha scritto il libro prima che il ciclone Dubai facesse tremare gli investitori occidentali per quei 59 miliardi di dollari di passività, è convinto che la piazza degli Emirati «dimostra che i musulmani riescono nel capitalismo come tutti gli altri trader e speculatori occidentali, infatti hanno fatto la stessa fine».
Kharas è più scettico: «Il Medio Oriente non ha ancora deciso dove vuole andare: sviluppo economico o controllo politico? La lotta è tra sunniti e sciiti o tra Oriente e Occidente? L’agenda è talmente vasta che è difficile concentrarsi su crescita e sviluppo ». Certo è che «per tornare a essere il ponte tra Asia ed Europa servono innanzitutto buone infrastrutture e collegamenti commerciali».
Il dubbio è che una rivoluzione economica senza dibattito politico conduca a una versione araba del capitalismo cinese. «Musulmani "progressisti" dalle loro case newyorkesi e parigine, ribatte Nasr, dibattono di modernità dalla fine dell’Ottocento, ma senza raggiungere nulla. Bisogna agire nelle diverse realtà islamiche e farlo con gli strumenti del capitalismo: sono stati commercio e valori borghesi a trasformare la Scozia del teologo John Knox in quella di Adam Smith; i protestanti di Calvino sono così diversi dai talebani di Kabul?».
«Meritocrazia, educazione, investimento e risparmio sono caratteristiche che la classe media porta naturalmente con sé», aggiunge Kharas, che sottolinea come il nodo sia il lavoro. Il mondo arabo dovrà creare 100 milioni di posti entro il 2020 per andare incontro a una massa di giovanissimi (il 75% della popolazione del Medio Oriente è under 35) che chiede un futuro migliore: «Solo così i giovani possono respingere il fondamentalismo». Per non sentire più, conclude Nasr, frasi come questa pronunciata dal padre di un futuro jihadista: «Che sia martire.Non c’è nulla per lui qui.Se muore per la guerra santa, almeno porterà onore alla sua famiglia».