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 2010  febbraio 28 Domenica calendario

INCANDIDABILIT SUL FILO DEL PARADOSSO - I

politici promettono di costruire ponti anche dove non c’è un fiume, disse una volta Nikita Chru?cëv. In Italia si limitano a promettere liste pulite. Niente pregiudicati in lizza alle regionali, proclamano all’unisono il capo del governo e quello dell’opposizione, il quotidiano dei vescovi, il sindaco di Milano. Via i corrotti dalla corsa alle candidature, ripetono vari ministri, da Scajola alla Carfagna. Mentre a sua volta il presidente della Camera suggerisce una quarantena di 5 anni per chi abbia commesso reati contro la pubblica amministrazione.
Meglio tardi che mai, verrebbe da esclamare. Anche se fa un po’ specie vedere questo corteo istituzionale che scandisce la parola d’ordine brevettata da Beppe Grillo, durante il Vaffa-day dell’8 settembre 2007. Lui ne fece un progetto di legge popolare, raccolse 350 mila firme in poche ore, ma il "palazzo" reagì inarcando il sopracciglio, e lasciando ammuffire quel progetto fra le scartoffie di Montecitorio.
Nulla di nuovo, si sa che la politica è volubile come una ballerina. Ma sullo sfondo della questione morale c’è un’altra questione non meno cruciale: il concetto di rappresentanza. E c’è inoltre una partita a scacchi con l’ossimoro, con il paradosso. Anche se il paradosso indossa in questo caso il doppiopetto grigio della legge.
Intanto una legge esiste già, benché nessuno più se ne rammenti. la legge n. 55 del 1990, che a suo tempo introdusse un terzo tipo di sbarramento elettorale, oltre alle cause di ineleggibilità e di incompatibilità: l’incandidabilità. Mettiamo da parte l’ardua distinzione fra queste tre figure, su cui si è a lungo esercitata la penna d’oca dei giuristi. Ma l’intenzione normativa era fin troppo chiara ed era inoltre ben più severa e intransigente del blog di Grillo: semaforo rosso alle elezioni regionali, provinciali, comunali per chi fosse sospettato di crimini mafiosi, traffico di stupefacenti, delitti contro la pubblica amministrazione. L’incandidabilità scattava infatti con il rinvio a giudizio, senza aspettare la sentenza definitiva di condanna. Da qui varie pronunzie della Corte costituzionale, una pioggia di modifiche per via legislativa, però il divieto è sopravvissuto al giro di millennio, solo che adesso s’applica ai condannati con sentenza passata in giudicato.
Insomma se l’obiettivo è di mettere in castigo chi abbia commesso peculato, concussione o corruzione, non c’è bisogno di una novella normativa. Tuttavia possiamo misurare quantomeno il rendimento delle norme già in vigore. Voto? Quattro: se insulti la logica non puoi sperare nella promozione. Anche perché l’insulto in questo caso è doppio, sia per una ragione esterna sia per una ragione interna alla normativa anticorrotti.
La prima deriva dalla circostanza che la legge chiude a chiave i piani bassi, però spalanca le finestre ai piani alti del Palazzo: l’incandidabilità funziona infatti per gli enti locali, non per le elezioni in parlamento. Un pasticcio di cui fu protagonista per esempio Rocco Salini, eletto nel 2000 al Consiglio regionale dell’Abruzzo pur avendo una fedina penale non proprio immacolata. Due anni dopo il Tar annullò le elezioni regionali, gli abruzzesi tornarono in fila ai seggi elettorali, ma lui nel frattempo era diventato senatore, anzi per premio venne nominato presidente della commissione sull’uranio impoverito.
Quanto alla coerenza interna di questa normativa, valga per tutti il caso di Marco Pannella, incandidabile essendo stato condannato per aver distribuito qualche spinello durante una manifestazione antiproibizionista sulle droghe. Invece può candidarsi un boss mafioso, se non ha ancora sul groppone una sentenza passata in giudicato. E oltretutto la pena in questo caso è a vita, sei cancellato dalla lista degli eleggibili per tutti i secoli a venire. A dispetto della funzione rieducativa della pena, di cui blatera l’articolo 27 della Costituzione.
Ecco perché c’è urgenza di temperare la spada del diritto. Con una legge, certo: l’idea di Alfano e di Schifani, quella d’affidarsi all’autoregolazione dei partiti, è un po’ come chiedere al caprone di fare il giardiniere. Però la nuova legge avrà un altro paradosso da sfidare: perché esigere l’onestà dai nostri rappresentanti nelle assemblee legislative, e non anche l’intelligenza, o almeno qualche competenza? Che cos’è insomma la rappresentanza? Uno specchio del paese o invece una selezione dei migliori? Nel primo caso dovremmo far posto in parlamento a una certa quota di razzisti, di pedofili, di imbroglioni, e naturalmente di corrotti. Nel secondo caso rischieremmo di chiudere baracca, dato che alla Camera un deputato su 3 non ha una laurea in tasca.
Parrebbe un’alternativa disperante: il governo dei filosofi vagheggiato da Platone oppure il governo degli inetti. Per venirne fuori dovremmo situarci a metà strada, dopotutto la virtù sta sempre nel mezzo. Invece oscilliamo pericolosamente fra le due lame di questo paradosso.