Marco Neirotti, La Stampa 28/2/2010, pagina 21, 28 febbraio 2010
LA SCIA DI SANGUE DEGLI EREDI DI ROSA E OLINDO
Per un rumore che dà fastidio si uccide. Dopo il delitto si appicca il fuoco. Si va al lavatoio a darsi una pulita. Si fa sparire l’arma. Si va a mangiare un boccone. Intanto il paese commenta: «Non è gente di qui». E, una volta arrestati, si domanda al giudice: «Possiamo stare in cella insieme?». Scene da Erba, a quindici giorni dall’apertura del processo d’appello. Ma è pure un’antologia dalla catena di morti ammazzati in un anno a Como e provincia, per motivi futili, atonia morale. Allievi inconsapevoli di Rosa e Olindo, gli assassini ne ricalcano ciascuno un’orma.
Un anno fa, febbraio 2009. Nel centro di Como un filippino aggiusta una pentola e fa chiasso, un amico gli spacca il cuore con una coltellata. Per dissidi di lavoro, un imprenditore è freddato, ad Albiolo, dopo un rogo che devasta quattro camion. Altre fiamme per distruggere un cadavere: quello di Maria Rosa Albertani, 39 anni, operaia. Il corpo carbonizzato è scoperto il 14 luglio 2009 sotto una finestra d’una casa di Cirimido. Si sospetta la sorella Stefania, 27 anni. Durante l’intercettazione ambientale i carabinieri ascoltano un dialogo, poi urla e voce soffocata. Per forza: la figlia sta strangolando la madre. Una pattuglia salva la donna prima che finisca nel vuoto e nel fuoco.
Il 22 agosto, a Carate Urio, un malato di mente finisce a coltellate davanti al cancello di casa il suo ex datore di lavoro: era convinto che l’uomo, anni prima, lo filmasse in azienda per poi deriderlo al bar. Il 5 settembre 2009, a Laino, un uomo è ammazzato dal fratello della convivente. Fa giardinaggio, è andato giù deciso di cesoie. Non gradisce il rimprovero della sorella, la colpisce con un punteruolo e uccide l’uomo che la difende.
Il 9 ottobre, in un appartamento accanto al Duomo, un imprenditore del caffè è freddato a rivoltellate. Lo troveranno l’indomani in un furgone a Tavernerio. Antonio Di Giacomo, 46 anni, era in affari con Emanuel Capellato, 34 anni, e Leonardo Panarisi, di 52. Era a casa loro con un borsone pieno di Rolex (tarocchi). Come nasca il dissidio gli arrestati non dicono. Sta di fatto che il cadavere deve sparire, i due ingegnosi fanno una capatina in un ipermercato, comperano un armadio a un’anta, ci piazzano dentro il morto e scendono in strada con contenitore e cadavere. Senonchè dalla bara provvisoria spunta un piede. Caricano tutto sul furgone e via. Poi uno va, anziché da Mc Donald’s, a mangiare la pizza con amici, l’altro raggiunge moglie e figlia per la cena.
Finisce in pizzeria il trucido film del 1° febbraio 2010. Alberto Arrighi, 40 anni, titolare di un’armeria, perito balistico del tribunale, riceve nello scantinato del negozio Giacomo Brambilla, 43 anni, gestore di pompe di benzina. Contorti i rapporti fra i due, ci sono problemi di denaro, Arrighi custodisce per conto dell’altro assegni circolari, però è in credito di 85 mila euro. Parlano quieti, Brambilla se ne va ma non arriva alla porta: l’altro lo fulmina con due colpi, gli spara quello definitivo. Teme che si trovino proiettili, si facciano perizie, se ne intende di queste cose. Allora telefona al suocero, Emanuele La Rosa, 68 anni, che accorre e tiene fermo il corpo mentre lui taglia la gola del poveraccio e poi con un seghetto gli stacca la testa. Tutto in due minuti e cinquanta secondi. Arrighi scarica il corpo nei pressi di Domodossola e La Rosa porta la testa nella sua pizzeria di Cantù, la piazza su una teglia con un po’ d’acqua e la infila nel forno a 350 gradi (per non impregnare tutto di odori sgradevoli). Poi appende un foglio: «Deve cuocere. Non aprire». Per dare una pulita Arrighi chiama la consorte, Daniela, che, minigonna e stivaloni bianchi, scende nella cantina con stracci e ammoniaca. Lui va al poligono, il suocero sulle piste da sci. Ricostruzione inattaccabile: nessuno aveva spento le telecamere del caveau. Su Facebook nascono due fazioni, guidate da una vedova che invoca giustizia (con 827 aderenti) e dalla moglie dell’assassino (47 amici): «Temete l’ira del mansueto».
La voglia di ammazzare rispunta a Valbrona. Antonino Correnti è un artigiano di 63 anni. Aveva una moglie, ma se n’era andata con i tre figli, uno disabile, a vivere con Carlo D’Elia, 57 anni, artigiano pure lui, rivale nella posa di pavimenti. Litigavano per l’assegno al ragazzino disabile e la disparità di lavoro. La mattina del 23 febbraio Correnti va a prendere il furgone e trova ad aspettarlo D’Elia con il figlio diciannovenne che ha avuto dalla convivente. Due botte in testa e una rivoltellata in faccia. Genitore e ragazzo - mentre il coro rispolvera il «non è stata gente di qui» - prima di andare uno dal carrozziere e l’altro a lavorare, buttano l’arma nel lago del Segrino, quello delle passeggiate di Rosa e Olindo, dove ora gli inquirenti, cercando l’arma di D’Elia, hanno già pescato quattro pistole che con questo delitto non c’entrano. Padre e figlio si sono lavati e al pm Massimo Astori, quello di Erba, raccontano dove: «Al lavatoio di Olindo, lei lo conosce». Alla fine una preghiera: «Possiamo essere messi nella stessa cella?».