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 2010  febbraio 27 Sabato calendario

VIVERE IN UN VIDEOGAME - A

metà degli anni Novanta un giovanissimo ricercatore americano propose una strategia innovativa nella lotta contro il cancro. Si trattava di infettare il malato col virus dell´Hiv opportunamente depotenziato – il quale virus, utilizzato come un missile, avrebbe provveduto a individuare e distruggere nell´organismo le cellule tumorali. Dopodiché era solo questione di mettere a punto una tecnica per sbarazzarsi anche del virus-missile, e il gioco era fatto. Malgrado l´ironia che suscitò sulle prime, non era affatto un´idea peregrina, e ancora oggi quella strada viene percorsa da numerosi istituti di ricerca. Ma sul momento a colpirmi di più fu l´origine di quella intuizione: il ricercatore era appassionato di videogiochi, e dai videogiochi dichiarò di avere imparato che quando hai due nemici fortissimi puoi vincere soltanto se li metti l´uno contro l´altro.
Più o meno in quegli anni l´influenza dei videogiochi cominciò a essere visibile nell´arte contemporanea. Giovani artisti di tutto il mondo cominciarono a esporre lavori che facevano chiaro riferimento ai videogame con i quali erano cresciuti. Nel 1993, del resto, era uscito Super Mario Bros, il primo film della storia tratto da un videogioco. Da allora, Hollywood ha progressivamente messo a punto una tecnica di sfruttamento dei videogiochi sempre più efficace e redditizia, fino a produrre film che a un videogioco somigliano per principio, anche se non ne provengono. (Il primo che io ricordi fu Fantasmi da Marte di John Carpenter, del 2001). Fin qui, però, si trattava ancora di una specie di avanguardia; di antesignani che scommettevano su questa nuova logica creativa, a loro rischio e pericolo. Dopodiché, l´industria dei videogiochi essendo diventata più redditizia delle altre, il passaggio da avanguardia a retroguardia è stato improvviso, e quello che era stato un azzardo visionario è diventato routine – incluso ovviamente il cammino inverso, per cui ormai non c´è film di un qualche successo che non venga immediatamente trasformato in videogame, spesso deludente.
Tutto questo per dire che la tirannia del videogame che si registra oggi era in un certo senso inevitabile. Certo, poiché si tratta dell´ennesima spallata nippo-americana al nostro modo di vivere, un minimo di resistenza poteva esser prodotto – o perlomeno un tentativo di non farsi colonizzare anche lì, come invece è avvenuto. Ma, insomma, l´ineluttabilità del fatto alleggerisce parecchio le nostre responsabilità di pastori distratti. Ciò che a questo punto diventa importante, dato che ormai siamo tutti attaccati a quel guinzaglio, è quanto sia lungo, quanta libertà ci lasci – e al riguardo ho un misterioso esempio familiare da raccontare. Gianni, il mio figliolo di dieci anni, è andato in fissa con The Sims, che, per chi non lo sapesse, è un videogioco di simulazione nel quale si deve creare un personaggio, inserirlo in una famiglia (o anche no), e, semplicemente, vivere la sua vita. Sims, infatti, sta per Simulators. Be´, Gianni ha creato diversi personaggi, e vive diverse vite. Una di queste è la sua, quella vera: cioè, ha ricreato la sua famiglia così com´è, con un padre scrittore e tre figli maschi – con la variante, però, di essere lui il padre. Siccome per guadagnarsi da vivere deve pubblicare dei libri, ha preso la lista dei miei veri libri e, uno dopo l´altro, li ha fatti pubblicare dal suo Sim-padre. Be´, la vita in famiglia è stata abbastanza dura finché il padre non ha pubblicato Caos calmo, che ha riscosso un grande successo e ha portato in casa la tranquillità economica. Quando me l´ha detto mi sono chiesto: come diavolo faceva, il videogame, a saperlo? Allora ho detto a Gianni di far pubblicare al Sim-padre La solitudine dei numeri primi: un successo strepitoso; Il codice Da Vinci e bum, la famiglia è affogata nell´oro. Poi gli ho detto di fargli pubblicare I cani del nulla (un libro bellissimo di Emanuele Trevi di qualche anno fa): niente. Di nuovo: come faceva a saperlo? Ho pensato che l´unica soluzione sia che il gioco contiene un criterio statistico di valutazione dei titoli, e che questo criterio sia non so come molto ben calibrato sul gusto del grande pubblico. In ogni caso, a quel punto ho fatto quel che non avrei dovuto fare. Ho detto a mio figlio di far pubblicare al Sim-padre un romanzo col titolo di quello che sto scrivendo io adesso. Tragedia. Secondo quel dannato videogame il romanzo che sto scrivendo sarà un fiasco assurdo. Perciò, dato che di tutti i quattrini guadagnati prima nella Sim-famiglia non era rimasto quasi nulla, il Sim-padre ha dovuto precipitarsi a pubblicare Uomini che odiano le donne, mentre il padre vero, cioè io, si è ritrovato con un dubbio che non gli fa onore e un altro che gli fa paura. Il dubbio che non mi fa onore riguarda il titolo del mio prossimo romanzo. Quello che mi fa paura è: può un videogioco diventare – non per gli autori ma, diciamo, per gli editori – una simile scorciatoia per decidere i titoli dei libri? E però, prima di dire "No!" col punto esclamativo – perché non può essere così, il mondo è complesso, e anche l´industria è complessa, anche l´editoria, anche il commercio, tutto, e il destino di un libro non può essere già scritto nel suo titolo, e anche se fosse sarebbe per l´appunto un destino, per leggerlo ci vorrebbe perlomeno una persona ispirata, uno sciamano, un paranoico, un editor-in-chief, non può bastare un microchip - dovrò pur tenere conto che fino a oggi non avevo mai nemmeno sospettato che un videogioco potesse raccontare a un figlio i sacrifici che ha fatto suo padre mandare avanti la baracca, e invece ora so che può farlo. Perciò aiutatemi, vi prego: dimostratemi che è stato un caso, che tutto è affidato al caso, magari, ma che non funziona così.