Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  febbraio 27 Sabato calendario

SACRIFICATO DAI SERVIZI PACHISTANI

E’ possibile che Pietro Antonio Colazzo, l’agente dell’Aise, l’agenzia per le informazioni e la sicurezza esterna, cioè i servizi di sicurezza italiani destinati a operare all’estero, non sia stato sacrificato dai taleban, ma da suoi «colleghi» (e mi scuso per accomunarlo anche solo nel termine) pachistani. L’attentato a Kabul, contro un centro commerciale, col passare delle ore sembra assumere infatti un profilo molto più complicato di quello che si è dato per scontato all’inizio.
Secondo fonti dell’intelligence afghana, raccolte da vari giornalisti stranieri, l’attacco sarebbe stato ideato e portato a termine non dai taleban, ma dai servizi segreti del Pakistan, con lo scopo di inviare un pesante avvertimento all’India. Questa versione, in maniera più edulcorata, l’ha fornita del resto in una nota ufficiale lo stesso Karzai, che ha indicato nell’India - e non negli stranieri in generale - l’obiettivo della strage.
Non che tutto questo faccia alcuna differenza per i familiari del nostro agente caduto, né per tutte le altre vittime; ma potrebbe farlo per il nostro dibattito politico interno che, ancora una volta, accenna a riprendere fiato, come sempre ogni volta che un italiano resta sul terreno nella missione afghana.
I pachistani, arcinemici dell’India, e con l’India impegnati da molti anni in una guerra di frizione in zone della loro frontiera, temono oggi la crescente influenza indiana nel Paese di Karzai. Secondo una versione più o meno oggi accertata, sono stati loro a progettare e portare a termine, insieme ai taleban, i vari attacchi all’ambasciata indiana a Kabul: quello nel luglio 2008, costato più di 60 morti, e l’altro, nell’ottobre scorso, con 17 morti.
Cosa significhi questa aggressiva presenza a Kabul dei servizi pachistani, ai fini del nostro dibattito sulla missione in Afghanistan, è presto detto: la guerra in quel Paese è ormai ben oltre il punto di non ritorno di una possibile negoziazione. Per la semplice ragione che, negli ultimi anni, la situazione interna del Paese si è frammentata e frantumata in molte schegge di conflittualità ed interessi: si è divisa in zone rurali e non, fra aree controllate o no dai taleban, in aree di influenza in cui i giochi sono molti. E’ il profilo di un conflitto che continua a muoversi sotto i piedi della missione Onu, e quella americana. Troppo in movimento perché si possa fare - almeno finora - un punto fermo da cui ricominciare un processo politico.
In termini di decisioni nazionali dei Paesi che hanno lì delle truppe questo significa una sola cosa: che il ritiro delle truppe - che deve essere giustificato da una qualche stabilizzazione interna - è ben lontano dall’essere possibile. L’offensiva lanciata dagli americani nelle ultime settimane, seguita al rinnovato impegno militare del presidente Obama, è in fondo la presa d’atto proprio che le forze occidentali, a quasi un decennio dal loro primo impiego nel Paese, non hanno mai davvero raggiunto il controllo del territorio. Tanto per capire la dimensione dell’impegno che gli Usa hanno ancora davanti, basta leggere le dichiarazioni dell’Amministrazione americana, che proprio ieri ha detto che la grande operazione appena finita, che ha portato alla conquista della roccaforte talebana di Marjah nell’Helmand, è solo «un preludio tattico» a una più ampia operazione nella provincia di Kandahar.
Questo in fondo è tutto quello che c’è da dire sull’ennesimo attacco dentro la capitale afghana. Una sintesi che, nella sua scarsità di parole, riflette quanto scarna sia diventata la verità di quel che succede in quel Paese.
Eppure, per quanto ridotta all’osso sia ormai la situazione afghana, non è detto che non peggiori.
Nell’agenda mediorientale c’è un nuovo appuntamento che contiene ulteriori incognite. Il 7 marzo, fra due domeniche, si va al voto in Iraq. Sono le seconde elezioni (le altre nel 2005) dopo l’invasione del 2003 da parte degli americani, e hanno la potenzialità di farci capire se la pax americana lascia dietro di sé, dopo sette anni, un Paese in grado di reggersi da solo, o se ancora una volta prevarrà la strada della lotta intra-etnica, del frazionamento religioso e politico. Gli iracheni vanno alle urne sullo sfondo del ritiro delle truppe Usa, che dovrebbero essere ridotte a 50 mila uomini in settembre, e poi azzerate nel 2011.
Per capire la frammentazione del Paese basterà sapere che alle urne si presentano 306 organizzazioni, di cui 251 in liste coalizionali e 55 da sole, per eleggere 325 membri del Consiglio dei Rappresentanti dell’Iraq, che a loro volta eleggeranno il primo ministro e il Presidente del Paese.
Ha scritto di recente Thomas Freedman sul New York Times: «Le elezioni ci faranno capire se l’Iraq è quel che è a causa di Saddam, o se è quel che è a causa di se stesso». Una bellissima affermazione su guerra e cultura o, se preferite, su politica e storia.
Ma al di là della letteratura, il rischio che giace al fondo delle urne irachene vale non solo per l’Iraq, ma, come si diceva, per tutta la zona di instabilità del Medio Oriente.
Negli ultimi dieci anni la guerra è stata come un pendolo che alternativamente ha oscillato fra Iraq e Afghanistan, passando per l’Iran. Nelle elezioni irachene, che saranno guardate anche per misurare il peso che l’Iran ha guadagnato in Iraq, si capirà soprattutto se questo pendolo può fermarsi.
La stabilizzazione dell’ex Paese di Saddam darebbe infatti agli americani sia la forza politica di aver stabilito un punto fermo, sia la forza militare di potersi concentrare sull’Afghanistan. Altrimenti il pendolo riprenderà a muoversi, con gli effetti distruttivi di sempre.
Lucia Annunziata