Goffredo Fofi, Il Riformista 24/2/2010, 24 febbraio 2010
BENITO JACOVITTI IL QUALUNQUISTA CON LA NOSTALGIA DEL POSTO AL SOLE Nei primi anni ottanta scrissi su Linus un articolo intitolato Perché non possiamo non dirci qualunquisti
BENITO JACOVITTI IL QUALUNQUISTA CON LA NOSTALGIA DEL POSTO AL SOLE Nei primi anni ottanta scrissi su Linus un articolo intitolato Perché non possiamo non dirci qualunquisti. Mi è tornato in mente leggendo gli Jacovitti di questo volume. In esso parlavo del ritorno in tante parti della società italiana della crescente diffidenza verso i partiti, verso il loro modo di occupare lo spazio e il dibattito pubblico, di occupare lo Stato. Così pure mi è tornato in mente come, negli anni Trenta, in Francia, gli studenti protagonisti del romanzo di Paul Nizan La cospirazione volessero fondare una rivista che avrebbe dovuto chiamarsi La guerra civile, un titolo che era stato seriamente vagheggiato dai primi surrealisti per una rivista che non si fece. Quel titolo rappresentava per gli studenti di Nizan un’aspirazione e un’idealizzazione conseguenti a certe convinzioni dell’epoca, tra marxiste e surrealiste, secondo le quali tutte le guerre sono civili, ogni guerra viene dichiarata e combattuta contro il proletariato, e la guerra per eccellenza è quella del proletariato contro la borghesia ed è quindi una guerra interna alla società classista, tra i ricchi e i poveri, una guerra civile. La guerra di cui Jacovitti ci ha parlato nei primi anni della sua carriera è stata quella coloniale, africana, ed è stata quella del regime fascista, ma più tardi ci ha parlato anche di un’altra guerra, questa sì immediatamente civile, combattuta tra fascisti e partigiani, tra repubblichini e partigiani. Jacovitti non ha mai avuto simpatie per il marxismo e tanto meno per il comunismo. Ne ha avute, invece, come mi sembra evidente dai suoi primi lavori di narrazione a fumetti, per il fascismo e per la guerra fascista, anche se via via la sua simpatia è stata messa alla prova dagli effetti della guerra, ed è stata mitigata o soffocata dalla parte cattolica della sua cultura e della sua anima. Alla drastica contrapposizione tra fascisti e antifascisti Jacovitti si dichiara estraneo, cerca di lavarsene le mani come fece buona parte del nostro popolo, scegliendo subito la parte degli apparentemente senza colpa, dei membri di quella che Primo Levi e altri dopo di lui hanno definito «la zona grigia». Il grigio, un colore che si mette a mezzo tra il rosso e il nero, negli anni dello scontro armato, diventa più tardi, in Jacovitti e in una gran parte del nostro popolo, il bianco democristiano e vaticano. Jacovitti tra il grigio e il bianco, dunque. La parte più interessante dell’opera di Jacovitti raccolta qui riguarda questo periodo storico, di transizione tra una guerra civile e una pace turbolenta. L’opera di Jacovitti degli anni di guerra appare datata e schierata – ed è peraltro assai fiacca: misero ancora il segno, condizionata, incerta, non autonoma la visione, ma nel 1943 Jacovitti aveva vent’anni! – Negli anni della transizione tra 1944 e 1948 il suo talento esplode in tutta la sua originalità e in tutto il suo vigore, sia attraverso la fortunata serie dei Pippo, Pertica e Palla, destinata a un pubblico di ragazzini, che in quella dai molti titoli della Famiglia Spaccabue o Grattasassi, specchio di una piccola borghesia travolta dalla storia e dai suoi risvolti economici, ma anche insidiata al suo interno da tutte le malattie congenite. Il piccolo o piccolissimo borghese di quegli anni è insicuro per definizione, diviso com’è tra la paura di cadere nella massificata indistinzione del popolo e la difficoltà di ascendere a qualche gradino superiore in una società che è estremamente classista. Pochissimi anni dopo La famiglia Spaccabue, Aldo Fabrizi, con l’ausilio di un umorista bizzarro come Anton Germano Rossi, inventore di un surreale horror casalingo e metropolitano con la serie dei Porco qui, porco là e membro influente della banda del Marc’Aurelio, ci donerà in cinema la trilogia della Famiglia Passaguai il cui capolavoro fu il secondo film Papà diventa mamma, erede non troppo indiretta delle ”famiglie” di Jacovitti. La scuola è la stessa da cui proviene Fellini e da cui, sulla scia dello stesso Jacovitti, verrà più tardi il geniale Altan; a riprova le loro deformazioni, le loro piazze, i loro tutto-pieno, gli ingorghi di folla stralunata e strapaesana, le grandi tavole fitte di piccole situazioni assurde che contraddistingueranno un’ispirazione comune: la visione di un’Italia sgangherata e caotica il cui culmine troveremo nell’ultimo capolavoro del riminese (la Sagra dello Gnocco che con le sue isteriche luci e con il suo frastornante baccano, copre sia la luce sia la voce della luna). Torniamo agli anni di La rovina in Commedia, di Pippo e il dittatore (molto più bello di Pippo e la guerra più avventuroso e infantile) e infine del formidabile e rivelatore Battista l’ingenuo fascista. Sarà stato un caso se quando riempivamo albi con la collezione di figurine jacovittiane quella più introvabile era Battista il fascista, da non confondere con quella molto comune di un altro Battista venuto da un’altra storia, Battista l’aiuto-regista? Il messaggio era chiaro: in un paese dove, almeno in certi anni, ben pochi erano stati gli antifascisti, ora tutti lo erano e di fascisti non c’era più traccia. Il povero Battista, che capisce sempre troppo tardi dove gira il vento e di conseguenza si mette sempre nei guai, è una vittima delle situazioni e della Storia. Come milioni di altre persone, in tutto il mondo ex belligerante, sa che che nell’aria è rimasta, con la guerra fredda, la paura che una terza se ne prepari, definitiva in quanto atomica. Ogni paese ha avuto il suo ”Uomo qualunque” la cui piccola storia individuale e famigliare è stata travolta dalla Storia ed è stata raccontata in decine di romanzi e di film (dal praghese Buon soldato Schwejk al tedesco Ballata berlinese al polacco Fortuna da vendere) ma a ben vedere di sempre. E l’Italia disincantata del secondo dopoguerra ne ha avuti forse più degli altri, per il semplice motivo di una confusione reale. Il punto di vista di Battista è quello di una piccola borghesia che la guerra ha appiattito e impoverito, che è dominata nella sua mentalità dal culto del ”particulare”, e che si ritrova ora sottoposta a una varietà di proposte ideologiche. Non poteva non prosperare, in questo contesto, un partito degli scontenti, quello dell’Uomo Qualunque (il marchio: un omino schiacciato da un torchio) fondato da un commediografo da ”telefoni bianchi” ma che in guerra ha perso l’amato figlio e che considera sua missione la difesa dei tartassati senza ideologia, con la sola ideologia della sopravvivenza. In questa ideologia compare la nostalgia di un tempo di pace, quello del fascismo degli anni Trenta, quando si sognava il traguardo delle «mille lire al mese» o finanche del «posto al sole» delle colonie, mentre non può comparire la nostalgia degli anni di guerra. Sulle mura di Roma, racconta Corrado Alvaro nei suoi bellissimi diari, nei tempi di carestia e di disordine dell’immediato dopoguerra comparve la scritta «Aridatece er puzzone», e diventò quasi proverbiale dire che «si stava meglio quando si stava peggio». Sono stati forse gli scrittori più serenamente borghesi a restituirci al meglio il clima di quella transizione, con occhio acutissimo ma con più profonda saggezza di altri, troppo ideologici: Savinio, Alvaro, Brancati, Moravia, Flaiano. Anche nel cinema la critica ha penalizzato molte opere di grande interesse tacciandole di qualunquismo.Nella fase della transizione, i grandi successi di pubblico arrisero a film che si chiamavano Abbasso la miseria con la Magnani e La vita ricomincia con la Valli, Vivere in pace con Fabrizi e Un uomo ritorna (con l’impressionante sequenza del tentato linciaggio di una spia repubblichina), Uno tra la folla con Eduardo De Filippo e Accidenti alla guerra con Taranto o Come persi la guerra con Macario, film più popolari che intellettuali e con un’aura assai vicina a Jacovitti. Due riferimenti soprattutto incombono sullo Jacovitti della transizione: quello della morale cattolica e quello di un pacifismo più radicale, che ha le sue radici nel Chaplin di Il dittatore o nella comicità dei Fratelli Marx (che sospetto Jacovitti conoscesse), e trovo delle concordanze che sembra nascano da un humus comune piuttosto che da influenze dirette con la satira politica di film come Duck Soup, con il loro regno di Freedonia. La zona grigia diventò col tempo una maggioranza silenziosa fortemente condizionabile, ma fu essa a subire l’aggressione di cento tensioni, a essere la destinataria di cento messaggi contrastanti. La satira di Jacovitti del sistema dei tanti partiti è tra le più spassose che l’arrivo rintronante della democrazia abbia prodotto. Non non si tira indietro, non si crede superiore rispetto ai suoi personaggi, si fa, come mai più dopo, protagonista egli stesso, rischia, si confessa, e apprezza o detesta da perfetto rappresentante e specchio di un’epoca unica e irripetibile, ma soprattutto immensamente vitale. Della quale, sì, è possibile oggi avere qualche nostalgia. Non è il più grave dei peccati di oggi condividere anche noi, per una volta, il luogo comune secondo il quale «si stava meglio (culturalmente, democraticamente) quando si stava peggio (economicamente)».