PIETRO CITATI, la Repubblica 26/2/2010, 26 febbraio 2010
ISTRUZIONI PER SALVARE UNA LINGUA VIVA
Una lingua non è soltanto un fenomeno storico: cioè l´insieme delle cose che sono state scritte e dette, nel corso di decine di secoli. anche un´idea, una possibilità, una forma, che sta nascosta (talvolta per tempi lunghissimi) nelle profondità della lingua reale. Prima o dopo, questa lingua possibile viene alla luce, incarnata nelle pagine di un grande poeta o di un grande prosatore. il momento in cui essa si rivela: come Cristo, Budda o Maometto si annunciarono ai loro fedeli. Questa rivelazione lascia stupiti, commossi, entusiasti, sconvolti: da principio, raggiunge pochi scrittori; e poi, lentamente, con incertezze, ritardi, contaminazioni, si diffonde nelle comunità dei parlanti. Così la Grecia diventò omerica, e l´Inghilterra shakespeariana.
Se vogliamo conoscere quale sia la vera forma dell´italiano, dobbiamo leggere lo Zibaldone, dove Leopardi studia la nostra lingua con una passione e una precisione, che nessuno ha mai eguagliato. Ne parla sempre, nel corso di dodici anni. Ne parla con l´intimità con cui un uomo può discorrere di sé stesso, perché Leopardi è l´italiano. I sostantivi, gli aggettivi, i verbi sono una parte del suo corpo e della sua anima. Niente gli resta celato: né le parole né le strutture. Gioca, scopre, si avventura in luoghi dove nessuno era mai giunto. Presto si convince che l´italiano, sebbene derivi storicamente dal latino, non ne condivide la forma. Il modello simbolico della nostra lingua è il greco: il greco di Saffo, di Platone, o Senofonte.
Come il greco, l´italiano non è una lingua, ma una vastissima superlingua, che contiene in sé stessa decine di lingue e di stili parziali. Racchiude molte isole, spesso diversissime tra loro: eppure tutte queste isole fanno parte della stessa superlingua. Affacciato alla finestra della biblioteca di Recanati, Leopardi guarda verso ogni direzione; e vede dappertutto una lingua infinitamente molteplice e multiforme, che cambia, si sposta, si capovolge, muta strutture, forme, sintassi, significati. Ne riceve una specie di ebbrezza. Qualsiasi isola coltivi, si accorge che è difficilissimo imporre modelli o regole: perché la superlingua crea sempre nuovi modelli e regole, e persino le ribellioni contro i modelli e le regole che essa stessa aveva creato.
Per molti anni, Leopardi contempla i movimenti e le metamorfosi della lingua che gli appartiene e a cui appartiene. Ora gli sembra dignitosa, grave, nobile, autorevole: simile al latino da cui era nata; e subito dopo osserva che è la più flessibile e pieghevole delle lingue. Ora gli pare lentissima: la vede camminare con un passo cauto e circospetto; poi la scorge procedere con una velocità demoniaca, inseguendo una meta irraggiungibile. Ora ostenta periodi immensi, pesanti e ramificati: ora si beffa di sé stessa, incantando il lettore con una specie di polverio luminoso. Qualche volta, gli sembra una lingua scritta: aforismi e apoftegmi e massime, incise nel marmo o nel bronzo. Qualche volta lo osserva imitare il linguaggio parlato - incertezze, irregolarità, andirivieni, ripetizioni, pause, confusioni, ubriachezze verbali: facendo risuonare in ogni pagina il vasto brulichio della voce umana.
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Circa ottant´anni fa, la lingua o la superlingua italiana conobbero una nuova rivelazione. Fu un momento felicissimo, di cui, forse, ci rendiamo conto solo oggi, in un periodo di pausa o di attesa. Ungaretti e Montale e Caproni e Bassani e Bertolucci e Gadda e la Morante e Zanzotto e la Ortese e Calvino e Fenoglio compresero che l´italiano aveva smesso di nascondersi, come accadeva ai tempi di Manzoni e di Leopardi. Il suo grande corpo era straordinariamente vivo, immobile, agile, giocoso, e splendeva liberamente alla luce.
I nostri scrittori potevano fare tutto ciò che volevano, perché l´italiano non offriva resistenza. Molti scrivevano quasi in sogno, senza incontrare l´attrito della carta, dell´inchiostro, del vocabolario, del tempo. Tutto era a portata di mano. Se volevano comporre un dialogo elegante e quotidiano - lo scoglio contro il quale la nostra narrativa aveva urtato per decenni - le domande e le risposte si disponevano sulla carta come un disegno musicale. Se volevano recuperare la lingua della tradizione, la prosa lieve di Voltaire e di Stevenson, le tenebre e le arguzie di Tacito, le lente tarsie della prosa del Cinquecento, gli enjambement di Della Casa, le cabalette dell´opera lirica, i versi dei provenzali e dello Stil Novo riemergevano nelle loro mani, come se fossero appena nati. I limiti dell´italiano si ampliarono. Gadda discese nelle sue profondità, recuperando la forza del latino e dei dialetti; Bertolucci riecheggiava i gerundi e i partecipi inglesi, e i periodi più onniavvolgenti della Recherche.
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Col 1945 e la fine del fascismo, si diffuse in Italia una lingua parlata diversissima da quella fascista. Sorsero due lingue contrapposte. La prima, quella democristiana, non possedeva una massiccia ideologia politica: affondava soprattutto nel linguaggio ecclesiastico, avvocatesco e giuridico: era ramificata, aggrovigliata, spesso (come nel caso di Aldo Moro) incomprensibile. La seconda (quella comunista) soffocava sotto il peso delle formule marxiste o paramarxiste, ricalcate sulla prosa sovietica. Non aveva né vivacità né movimento. I discorsi dei dirigenti comunisti sembravano immense divisioni di carri armati, che avanzavano lentamente verso la meta. Lo scontro fu violento. Ma ci furono casi (come quello di Franco Rodano), in cui gergo democristiano e gergo comunista si attrassero, si contaminarono, si fusero, producendo raccapriccianti mostri linguistici.
L´influenza dell´inglese fu più vasta e capillare, e riguardò tutto il vocabolario, non solo termini scientifici e tecnici. Molti immaginarono che era molto più elegante usare una parola inglese anche se una parola italiana significava esattamente la stessa cosa. Ma questa influenza viene, di solito, sopravalutata. Il francese e il tedesco furono toccati molto più profondamente dall´inglese: circa trent´anni fa, in Francia venne pubblicato un libro divertentissimo, intitolato Franglais, che documentava la straordinaria ampiezza del fenomeno di contaminazione; mentre, in Italia, l´influenza riguardò soprattutto il lessico e non la forma della lingua. Anche in questa occasione, l´italiano dimostrò di essere una lingua intimamente conservativa.
In questi anni, i dialetti, specie quelli del Nord e del Centro, diminuirono il loro significato e la loro importanza. Parlare in dialetto torinese o milanese veniva avvertito come un segno di inferiorità sociale. Il cinema del dopoguerra e le prime trasmissioni televisive diffusero una forma di romanesco edulcorato, senza la minima traccia della forza espressiva del Belli. Questo falso-romanesco arrotondava o troncava o spezzava o modificava il lessico italiano. Era una specie di italiano inumidito nel Tevere. Esso si diffuse enormemente: specie nella conversazione scherzosa o finto-amichevole; e persino in regioni remote, che avevano sempre detestato il dialetto della capitale.
Mezzo secolo più tardi gli italiani parlano una lingua molto diversa da quella del 1950 o del 1960. Il primo segno è la scomparsa quasi completa delle lingue politiche: il democristiano e il sovietico. Quasi all´improvviso comparve quel fenomeno ripugnante chiamato talk-show. Gli uomini politici di oggi cercano di parlare come i loro ascoltatori. In televisione, chi strizza l´occhio, chi ride fragorosamente, chi polemizza, chi accarezza il viso, chi posa la mano sulla spalla e sulla schiena, chi insulta, chi offende, chi dottoreggia, mentre un immenso boato di ubriachi impedisce di comprendere qualsiasi parola. Con questi sistemi, gli uomini politici cercano di essere simpatici e confidenziali, semplici e alla mano: proprio come uno di noi. La cosa paradossale è che non ci riescono mai. Tutti gli uomini politici italiani vengono disprezzati e detestati, con un rancore che, alle volte, suscita spavento. Nessuno si salva dal disprezzo: nemmeno Silvio Berlusconi, con la sua religione dell´amore.
Intanto si è formata rapidamente una nuova sotto-lingua, della quale ho una scarsa esperienza diretta. Per conoscerla, bisogna vivere nelle aule: leggere i compiti di italiano, imparare la storia; parlare con i sedicenni e i diciottenni, sedere tra i banchi, insegnare nelle scuole di periferia. Mi limito a ripetere quello che scrivono Marco Lodoli e Paola Mastrocola. Questa sotto-lingua non ha sintassi, né punteggiatura: detesta la precisione e l´esattezza: sostituisce i segni alle parole: pullula di formule gergali: non riesce a esprimere i concetti e i sentimenti più semplici: non possiede colore: balza da un errore di ortografia a un altro errore di ortografia. Contamina la lingua parlata e scritta nelle università, dalla quale viene a sua volta contaminata. Non ha freni, né contrappesi, né modelli: perché i professori vengono travolti dalle abitudini dei loro scolari, e gli studenti universitari hanno rinunciato quasi completamente a leggere libri.
La costruzione di Un Istituto per la Salvezza della Lingua Italiana, che qualcuno ha proposto, mi sembra ridicola: anche perché di solito i rappresentanti delle Istituzioni scrivono malissimo. Credo che esista un solo rimedio: la lettura. Non è affatto vero che un bambino di sei, o di otto anni, sia inesorabilmente schiavo della televisione e dei giochi elettronici. Un bambino è una creatura plastica, trasformabile, cangiante: vuole divertirsi, muoversi, spostarsi, viaggiare nella fantasia; ed è perfettamente possibile persuaderlo che leggere Pinocchio, L´isola del Tesoro, Il libro della Jungla, I ragazzi della via Paal, è molto più divertente che stare seduti, cogli occhi sbarrati, davanti a uno schermo televisivo o a un computer. Solo che qualcuno deve persuaderlo: il padre, la madre, il nonno, il maestro, il professore, l´amico. Se vogliamo difendere l´italiano, l´unica strada è quella di educare gli adulti: compito quasi impossibile.