varie, 26 febbraio 2010
LA MODA SONO IO
(ritratto Anna Wintour per VoceArancio) -
Da vent’anni alla guida di Vogue, per bocciare una collezione alza il sopracciglio e abbassa il mento. Chi è Anna Wintour, la regina del fashion system tra pochi giorni a Milano
«Stia tranquillo, oggi non morde, lo fa solo qualche volta» (l’assistente personale di Anna Wintour a Roberto Bolle mentre lo accompagnava da lei).
Anna Wintour, direttore di Vogue America, ha fatto sapere che, in occasione della settimana della moda di Milano (24 febbraio - 2 marzo, presentazione delle collezioni donna autunno/inverno 2010/2011), rimarrà in Italia solo dal 26 al 28 febbraio, poi andrà a Parigi. Pur di averla alle loro sfilate molti stilisti hanno chiesto alla Camera della Moda di cambiare calendario. Il direttore di Vogue ha domandato la stessa cosa a Parigi, dove le sfilate cominceranno il 2 marzo e dureranno otto giorni. La Grandeur ha ignorato la richiesta.
Diego della Valle, proprietario di Tod’s, ha invitato i colleghi a non modificare la scaletta «per non danneggiare il made in Italy». Giorgio Armani, la cui sfilata era prevista per lunedì primo marzo, si è spostato a sabato, John Richmond ha fatto la stessa cosa. Versus ha anticipato la sfilata a domenica, C’n’c Costume National ha preferito mettersi di venerdì. Reazione di Mariuccia Mandelli, Krizia: «Ma chi è Anna Wintour? Non è mica la padrona del mondo. Perché dobbiamo piegarci ai suoi voleri?». Krizia non ha cambiato giorno (sfilerà il 25 febbraio), stessa determinazione da parte di Laura Biagiotti: con la figlia Lavinia aveva deciso di portare in passerella la sua collezione lunedì 1 marzo e in quel giorno è rimasta.
Marchi presenti nel calendario milanese: 90. Nei tre giorni di Wintour in Italia ci saranno 45 sfilate. In molti casi i défilé si accavalleranno, complicando il lavoro di compratori, modelle e giornalisti.
Non è la prima volta che Anna Wintour chiede di modificare il calendario delle sfilate. Nel 2009 c’era stato il problema del lunedì che coincideva con la festività ebraica dello Yom Kippur, giorno in cui molti buyer presenti a Milano non lavoravano. In realtà, ricorda Mario Boselli, presidente della Camera della Moda, «era il lunedì a importare, non la festa religiosa: il lunedì senza la signora Wintour». Nel 2008 aveva chiesto alle maggiori maison italiane (e anche quella volta la sua richiesta era stata accolta) di concentrare le sfilate in pochi giorni a causa della debolezza del dollaro, che rendeva costosa la permanenza a Milano.
Programma della visita di Anna Wintour a Milano: la sera del suo arrivo cenerà al ristorante Peppino di via Durini, come fa sempre quando si trova in Italia. Al solito tavolo mangerà in compagnia di Christopher Bailey, stilista di Burberry (è lui che prenota a nome Bailey). Piatto preferito: cotoletta alla milanese. A parte il maître Armando Sebastiani le farà avere un piattino d’insalata che lei stessa condirà con olio e limone. Niente primi, dolci, vino, caffè, solo acqua liscia.
Alle sfilate ha sempre il posto migliore. Chi le siede vicino conta molto. Se la distanza è di due sedie a destra, si conta moltissimo. Il suo atteggiamento classico: braccia incrociate, dita tamburellanti, sul viso gli occhiali scuri Chanel da cui non si separa mai. Il motivo: «I can sit in a show and if I’m bored nobody will notice. At this point they have become, really, armour» (Posso partecipare a uno show e se sono annoiata nessuno lo noterà. A questo punto sono veramente diventati un’armatura). Se alza il sopracciglio e abbassa il mento la collezione è da rifare.
Più volte Wintour ha dimostrato di non avere una buona opinione della moda italiana. Nel 2005 nella classifica dei magnifici sette della moda, fatta da quei «designer individualisti che stanno spingendo la moda verso il futuro, trionfando sui grandi marchi», inserì un solo italiano, Prada. Gli altri: Marc Jacobs, Narciso Rodriguez, Nicolas Ghesquière (Balenciaga), Olivier Theyskens (ex Nina Ricci), Alber Elbaz (Lanvin), Stefano Pilati (Yves Saint Laurent). Innamorata della moda americana, ha lanciato designer come John Galliano, Marc Jacobs, Victor & Rolf e fotografi come Peter Lindbergh e Steven Meisel. Parecchie volte ha detto che l’era Armani è finita.
Quella volta che Giorgio Armani organizzò un party al Moma di New York in un momento che non le era non gradito, e lei si vendicò indossando un tailleur Chanel, per di più giallo. Commento di uno dei presenti (che ha chiesto di rimanere anonimo per non inimicarsela): «Era un ”va all’inferno” vagante. Era il suo modo di dire: ”Senti amico, farmi uscire stanotte per vedere uno stilista milanese durante la settimana della moda americana è sbagliato e perciò eccomi indossare questo modello insultante”».
Grande appassionata di pellicce, soprattutto di Fendi e Chanel, a Parigi ha preso due torte in faccia. La prima volta, il 5 marzo 2005, a pochi minuti dalla sfilata Chanel, una giornalista arrabbiata con lei le lanciò un cheese cake. Il suo braccio destro, André Leon Talley, cercò di proteggerla, invano, con una stola di visone. La seconda volta, nell’ottobre 2005, all’uscita del défilé Chloé, gli animalisti della Peta le tirarono un gateau a base di tofu accusandola di essere una spacciatrice di pellicce. Per proteggersi da eventuali futuri attacchi ha assunto un servizio di sicurezza.
A Parigi alloggia al Ritz nella suite che fu di Coco Chanel. Tiene ricevimenti nella Hemingway Room dell’hotel e organizza cene per gruppi selezionatissimi al Caviar Kaspia.
Sessant’anni, inglese di Londra, suo padre era il direttore dell’Evening Standard. A 16 anni fu allontanata da scuola per la smania di accorciarsi le gonne. Per qualche tempo frequenta un corso di design. Per un po’ è una delle commesse di Biba, il negozio in cui facevano shopping i Beatles, i Rolling Stones, Twiggy, Brigitte Bardot, Mia Farrow, Cher, David Bowie ecc. La sua carriera giornalistica inizia nel 1970 al mensile Harper’s & Queen. Nel 1976 si trasferisce a New York come fashion editor di Harper’s Bazaar, quindi diventa senior editor al New York. Nel 1983 arriva a Vogue Inghilterra e lo rilancia. L’Evening Standard, il giornale diretto da suo padre, scrive di lei: «Le interessano solo il potere e i soldi». Molto riservata, della sua vita privata si sa solo che nel 1984 ha sposato David Sheffer, psichiatra infantile di 13 anni più grande di lei. Ha avuto figli, Charles e Katherine, e ha divorziato nel 1999. La mattina si sveglia alle cinque. Non va a dormire mai dopo le 22. Vorrebbe avere un rovescio migliore a tennis.
Quando si presentò al colloquio per essere assunta a Vogue, l’allora direttrice Diana Vreeland le chiese quale posto volesse ottenere all’interno della rivista. Le rispose: «Il suo».
Nel 1988 diventa direttore di Vogue America. La copertina d’esordio è una rivoluzione: per la prima volta nella storia della rivista compare in prima pagina un paio di jeans. Strappati, per di più, ma abbinati a una t-shirt incrostata di diamanti di Christian Lacroix dal valore di 10mila dollari.
Ogni mattina arriva in redazione alle otto dopo un’ora di tennis. Trucco e pettinatura sono sempre impeccabili. Partecipa alla riunione di redazione per soli 15 minuti. Non ascolta mai le risposte alle sue domande. Di lei si dice che abbia una scrivania senza cassetti su cui non poggia nemmeno una matita, si rifiuta di dividere l’ascensore, non permette alle redattrici di salire sulla sua limousine per andare alla sfilate ecc. Riceve centinaia di regali, non ringrazia e li ricicla. Soprannominata ”Regina di ghiaccio” o ”Nuclear Wintour”, ha fatto sapere di non amare il secondo nomignolo che quasi subito è scomparso dai giornali. I più stretti collaboratori la chiamano ”The Pope”.
Magrissima, vive di cappuccini, di cui sorseggia solo il latte, che apposite assistenti devono procurarle sempre bollenti.
Consiglio a un’assistente sull’abbigliamento: «Butta tutto quello che hai».
Negli anni la sua pettinatura, quel caschetto che gli americani chiamano bob, i suoi tacchi a spillo e gli occhiali scuri l’hanno resa inconfondibile. Basandosi sulla sua esperienza personale, Lauren Weisberger, ex assistente di Wintour particolarmente vessata, ha scritto il romanzo Il Diavolo veste Prada, la cui protagonista sembra incarnare Wintour. Dal giorno della pubblicazione, nel 2003, il libro è rimasto per sei mesi nella lista dei best seller del New York Times e ed è stato tradotto in trenta lingue. Nel 2006 è diventato un film diretto da David Frankel con protagoniste Meryl Streep, nei panni della direttrice Miranda Priestly, e Anne Hathaway, che ne interpreta l’assistente. All’anteprima del Diavolo veste Prada Wintour si è presentata sorridente, vestita di Prada dalla testa ai piedi. Nel film compaiono anche Valentino e Giammetti nei panni di se stessi. Lo stilista ha raccontato che all’inizio i colleghi avevano paura di dare i vestiti e di legare il loro nome al film: temevano le ritorsioni del direttore.
«Mi sembra di ricordare che quel film fosse finzione e a noi di Vogue piacciono molto le finzioni» (a David Letterman sul film).
L’11 settembre 2009 in America è uscito The September Issue, documentario di R. J. Cutler, regista specializzato in reality televisivi, sulla preparazione del numero di settembre di Vogue, il più importante dell’anno in cui affluisce tutta la nuova pubblicità. Cutler ha trascorso otto mesi con Wintour e il suo staff durante la preparazione del numero del settembre 2007, una delle copie più imponenti della storia deimagazine con 840 pagine, di cui 727 di pubblicità (il numero di settembre 2009 ne aveva il 37% in meno). A differenza del Diavolo veste Prada, The September Issue non solo ha come protagonista la direttrice dell’importante mensile, ne ha anche la benedizione.
Costo di una pagina di pubblicità su Vogue: tra i 30 e i 50mila dollari. Copie vendute negli Stati Uniti: più di un milione.
Sulla copertina del numero di settembre 2007 c’è Sienna Miller. Davanti alla foto dell’attrice, Wintour disse: «Qui c’è un problema di denti». Davanti a uno scatto dell’esile Jennifer Garner: «Sembra incinta».
Wintour non sopporta le persone sovrappeso. Nel 1998 chiese all’amica Oprah Winfrey di perdere venti libbre, più o meno nove chili, per poter avere la copertina. Come Franca Sozzani assume soltanto redattrici che non portano più della 42.
Per qualche mese si è parlato di una possibile sostituzione di Anna Wintour alla guida di Vogue America. Jacqueline Follet, direttore dell’edizione francese, meno autoritaria, sempre sorridente, disponibile con il prossimo, potrebbe essere la nuova guida della rivista.
L’anno scorso i consulenti di McKinsey hanno proposto al presidente di Conde’ Nast un piano d’interventi per evitare che la società chiudesse in rosso. L’unico gruppo cui non è stato imposto il contenimento delle spese è stato quello di Vogue. Motivo: per Vogue il lusso è uno stile di vita, un mantello che non si può rimuovere senza correre il rischio di perdere i lettori che amano i gioielli, l’alta moda e gli altri simboli di opulenza.
Stipendio di Anna Wintour: due milioni di dollari l’anno, più 200mila per le spese d’abbigliamento.
Ospite di David Letterman, quando lui le ha chiesto che cosa succede quando il budget per la moda di una signora scende a venti dollari, ha risposto: «Può comprare un rossetto». Venti dollari è anche il costo del numero di Vogue di settembre.
Non fa molto shopping: «I get a few key pieces each season and wear them a lot of time» (Ogni stagione prendo alcuni pezzi chiave e li indosso molte volte). Che cosa indossava un lunedì alle 8 del mattino per una giornata di lavoro normale: gonna verde Oscar de La Renta, una maglia bianca a costine, e un cardigan Marni di un verde più chiaro.
I suoi jeans preferiti sono i J-Brad. Non porta mai la borsa.
Nella classifica del Time dei passi falsi in eleganza del 2009 (praticamente dei peggio vestiti) Anna Wintour ha conquistato il primo posto a causa dell’abito Chanel dalle forme futuristiche indossato al gala del Costume Institute di New York. Secondo il Time «sembrava incrostato di fossili e molluschi, una Waterloo nella storia della moda contemporanea».
Nel 2008 indossò lo stesso vestitino fiorato Caterina Herrera alle sfilate di Milano, Londra e Parigi.
«Tutti sognano di finire sulla copertina di Vogue, nessuno mi ha mai detto di no» (Anna Wintour).