FRANCESCO MERLO, la Repubblica 25/2/2010, 25 febbraio 2010
TRA SCANDALI E SPETTACOLO COS FINITA UNA DINASTIA - C´è
un rapporto stretto tra Brindisi e Sanremo, tra la fuga ignominiosa del bisnonno e il patetico canto del nipote, tra l´indecente uscita dei Savoia dalla storia e il loro definitivo rientro attraverso il festival della cialtroneria italiana. Insomma, Emanuele Filiberto ha confermato d´essere il legittimo erede dei Savoia, certamente non ne sta appannando il nome già opaco, non sfigura tra quegli uomini e quelle donne che hanno fatto della monarchia uno dei valori negati all´Italia. Anzi, il principino si è finalmente guadagnato il diritto alla discendenza, presto sarà acclamato tele-re, succederà a Vanna Marchi I e può persino aspirare al trono di Aiazzone II, rispetta insomma la goffa tradizione di una famiglia che da centocinquanta anni lavora contro se stessa, contro il concetto di regalità, di rex rectus, sacerdote prima ancora che sovrano.
Più tagliente e irrevocabile della ghigliottina, Sanremo ha dunque definitivamente decollato un mito che in Italia prima ancora che al tradimento e alla slealtà rimandava all´inconsistenza e alla volgarità, alle abitudini sessuali del papà di Emanuele Filiberto, messo alla gogna dalla sciagurata inchiesta di Potenza che tuttavia ne rivelò la vita dissipata.
E invece per quanto passatista il mito monarchico continua a illuminare la storia di paesi che sono campioni di civiltà e di democrazia, come Spagna, Inghilterra, Belgio, Olanda, Lussemburgo, Danimarca, Svezia e Norvegia. E anche la Francia e i popoli dell´ex impero austroungarico sono fieri di avere avuto dei re, celebrano nella storiografia e nella letteratura la bellezza inattuale dell´aristocrazia, di quel mondo perduto che Stefan Zweig definì «l´età d´oro della sicurezza» e che Joseph Roth avrebbe voluto restaurare. Lì c´è la storia e in Italia c´è Sanremo. C´è una gloria tragica nel tornare da Varennes per finire alla ghigliottina e c´è tutta la nostra marginalità ormai secolare nel tornare da Brindisi per finire a Sanremo.
Il nome Savoia condanna l´aristocrazia italiana a un vuoto antropologico che assorbe e annulla quel poco di storia che pure abbiamo accumulato. Se si esclude qualche sapido profilo non esiste una storiografia accademica qualificata sui Savoia. E persino i nostri professori universitari non conoscono tutti i nomi dei monarchi dell´Italia unita. E hanno un bel protestare i devoti di Amedeo che chiedono lo slittamento del titolo al ramo collaterale. Sono dispute per studiosi di lasciti ereditari, per esperti di simboli araldici, di gigli e di Savoiardi che non sono soldati e politici ma biscotti: «... i Savoiardi me li mangio col caffè, io!», dice don Ciccio Tumeo al Gattopardo.
Gli italiani hanno imparato a scuola che i Savoia non vinsero neppure una battaglia nelle guerre di Indipendenza. E non era scritto da nessuna parte che il bisnonno di Emanuele Filiberto dovesse permettere la marcia su Roma anziché mandare, come avrebbe dovuto, l´esercito a disperdere i fascisti. E fu ancora il re che tollerò, dopo il delitto Matteotti, la trasformazione del sistema parlamentare in una dittatura, istituzionalizzò il regime, firmò le leggi razziali contro gli ebrei, fu complice della guerra nazifascista. E tradì sempre e tutti, l´ideale monarchico innanzitutto, e la patria, lo stesso Mussolini, il popolo e l´esercito abbandonati a se stessi dopo l´otto settembre. E poi fuggì come appunto fuggono i traditori. E solo perché c´è una maestà che si sprigiona dall´esilio, da qualunque esilio, il dignitoso Umberto II riuscì a tenere in vita un illusorio barlume di regalità malgrado le gaffe, le tante sciocchezze, le mille volgari arroganze e il colpo di carabina di Vittorio Emanuele nell´agosto del 1978 nell´isola di Cavallo.
Eppure è capitato a noi italiani, che abbiamo bisogno di sapori forti e siamo affamati di tradizioni, di cercare nei Savoia quell´identità e quei meriti che non hanno. Per esempio, è vero che il principino potrebbe vantare un prozia, Mafalda, che morì in campo di concentramento. Ed è vero che il suo avo Carlo Alberto promulgò la costituzione liberale. E quando morì sua nonna, Maria José, per un momento l´Italia cercò di aggrapparsi a quella regina che nessuno conosceva. Scoprimmo una bellezza bionda, magra e con gli occhi celesti, madre distratta e moglie spregiudicata, sensibile ai turbamenti del desiderio, pallida, ambigua e un po´ maledetta come le donne che poi avrebbero fatto impazzire i giovani di tutta l´Europa. In uno sceneggiato televisivo con Barbara Bobulova, Carlo Lizzani, pensando forse alla principessa Diana, raccontò questa regina che visse con disagio gli anni Trenta, con tutte quelle baionette e quei bagliori di guerra stracciona, quei comizi e quelle uniformi di partito molto più in vista delle uniformi militari. E si capisce che i Savoia le abbiano permesso qualche sventatezza da cospiratrice, come incontrare Toscanini, Benedetto Croce e monsignor Montini, un po´ come l´imprenditoria fondiaria degli anni Sessanta consentì ai propri rampolli di flirtare con il ”68. E chissà se è vero che il partigiano comunista Cino Moscatelli offrì alla regina il comando della sua brigata. Forse l´episodio illustra di più l´opportunismo tattico e strategico dei comunisti di Togliatti che l´antifascismo dei Savoia. Di sicuro la fantasia di una regina repubblicana è un altro ossimoro italiano.
Sono stato a Hautecombe, sulla riva del lago in cima al mondo, dove è stata sepolta Maria José accanto al re che non amò. Anche chi li vorrebbe al Pantheon si renderebbe subito conto che è molto meglio che stiano lì, in un posto imprendibile, un territorio mentale, uno di quei luoghi irraggiungibili dove appunto si custodiscono i valori negati, il santo Graal, il pomo dorato della poetessa Saffo, i Savoia che avrebbero potuto essere e che non sono stati veri re.