Dario Di Vico, Corriere della Sera 24/02/2010, 24 febbraio 2010
L’ITALIA DEI PICCOLI, LA «PANCIA» E LA NUOVA SFIDA ALLE LITE
Quante volte, nei discorsi politici degli italiani, ricorre il termine «pancia»? Tante, tantissime e negli ultimi mesi l’utilizzo si è fatto frenetico. Lo si ripete perché in fondo ci si nasconde dietro di esso. La pancia è un territorio insondabile, sottomesso agli umori e alle paure e quindi extra moenia rispetto alla ragion politica. E forse anche agli strumenti dei sondaggisti. In questi mezzi discorsi si dà per scontato che alla pancia si addica il centrodestra e, viceversa, nessuno oserebbe mai pensare (e tanto meno dire) che, se il Pci di Enrico Berlinguer era arrivato abbondantemente oltre il 30%, un po’ di pancia l’aveva comunque sedotta, se non conquistata del tutto. E si fatica ad ammettere che almeno la Dc la pancia del Paese in qualche modo la conoscesse, la frequentasse, ci dialogasse proficuamente. No, nell’arringa stereotipata delle élite minoritarie la pancia è considerata una figlia della Seconda Repubblica, una nipote sciagurata della morte delle grandi narrazioni.
La verità è dunque dentro un paradosso. Il nostro non è sicuramente un Paese più moderno e razionale dei suoi partner occidentali, eppure ha la sventura di ospitare i politici, gli opinion maker e gli intellettuali più spocchiosi del G8 e quando fanno riferimento alle opinioni e ai sentimenti dei 60 milioni di loro connazionali non trovano di meglio che tirar fuori la storia della pancia. la metafora che viene loro più facile, quasi un riflesso automatico, da una parte la mitica società civile (e i ceti medi riflessivi), dall’altra lo stomaco.
Se vogliamo proseguire e cercare ascendenze storiche dobbiamo rifarci a Tito Livio e al famoso apologo di Menenio Agrippa: la società è come il corpo umano, il cui buon funzionamento dipende da tutte le sue parti, stomaco incluso. Siamo nel 494 a.C. e lo storico racconta la secessione della plebe che abbandona la città eterna e se ne va sul Monte Sacro. Il compito di Agrippa è quello di restaurare la coesione romana: da qui l’apologo che restituì dignità alla pancia di allora. Gli annali della letteratura ricordano poi il genio di mile Zola e la sua magistrale raffigurazione del «ventre di Parigi», un modo per narrare odi e passioni del mondo operaio e popolano della città. Ma chi è stato a introdurre il termine «pancia» nel lessico politico italiano contemporaneo? Anche cercandola, non si rintraccia nessuna rivendicazione di paternità. Qualche indizio porta agli intellettuali e ai giornalisti di area socialista degli anni Ottanta, quando il Psi si interrogava sui cambiamenti sociali e i riflessi sulla competizione tra i partiti. Solo in epoca di Seconda Repubblica, a giudizio di molti, la pancia ha trovato un suo proprietario stabile, nella Lega Nord, ma ha anche fornito un costante contributo alle battaglie politiche di Silvio Berlusconi. Quante volte si è fatto ricorso allo stomaco per spiegare il successo degli uomini di Umberto Bossi e la loro presa su un elettorato popolare impaurito dalla globalizzazione e dall’immigrazione clandestina? Non si contano. Ma, detto questo, della pancia sappiamo poco altro. Anche perché non parla, non gode di nessuna rappresentazione (c’è un regista disposto a girare un film?) ed è anche assai difficile che qualcuno rivendichi di farne parte. Le si appartiene più per sottrazione e differenza che per identità. Per Renato Mannheimer la pancia equivale «al non detto della politica, a quello che nessuno dice ma la gente pensa, i sentimenti veri ma anche quelli neri». L’intolleranza e, perché no?, anche l’invidia per le frequentazioni femminili del Cavaliere. Mannheimer sostiene che stiamo parlando di una parte significativa «dello stesso carattere nazionale» e vede nella pancia l’antitesi dello spirito civico.
Quali analogie possiamo trovare fra l’Italia dei Piccoli e la pancia del Paese? Aree di sovrapposizione sicuramente ne esistono, e ampie. Nei confronti di entrambe è scattata la conventio ad excludendum da parte delle élite, sono state considerate aree periferiche rispetto alla formazione dei costumi e degli orientamenti nazionali. Figuriamoci per le idee. Un’esclusione che è passata innanzitutto per una condizione di invisibilità. I Piccoli e la pancia non hanno riti da onorare, linguaggi da tener in vita, manifestazioni da propagandare, pantheon da riempire, orgogli da coltivare. Nel primo berlusconismo le due aree coincidevano quasi del tutto. sicuramente arduo sostenere che la pancia sia stata mai liberale, ma attorno alla metà degli anni Novanta c’è un profondo (e poco studiato) rimescolamento della società italiana. Le parole d’ordine contro le tasse e contro la burocrazia fanno breccia in profondità e persino il repentino cambiamento del personale politico risponde a un sentimento largamente diffuso. Dagli assetti cristallizzati della Prima Repubblica, dell’arco costituzionale, della concertazione rigida, si passa a qualcosa di più individualistico. L’ego prende il posto del noi e del politicamente corretto. E la pancia segue, si immedesima, a dimostrazione che non è un compartimento inerte e sordo, anzi, quando gli input sono centrati li recepisce. I Piccoli credono nella libera impresa e nel lavoro autonomo, non disdegnano il mercato e lo considerano tutto sommato come la migliore allocazione delle risorse che essi conoscano, odiano lo Stato-imprenditore e le oligarchie industriali. Si obietterà che gli anni Novanta sono lontanissimi, che si trattava, rispetto a quello di oggi, di un mondo più lineare e ottimista, sembravamo comunque condannati a crescere lentamente ma pur sempre a crescere, e i cinesi non erano ancora quel gran rebus che abbiamo scoperto dopo.
Adesso non sappiamo più con certezza se la pancia e i Piccoli coincidono, molto è cambiato in termini di percezione dei pericoli e non possiamo esser certi se è veramente mutata la cultura e la predisposizione verso il mercato. In tanti sostengono che si sia fatta largo una nuova voglia di Stato e che la pancia abbia ripreso ad aspirare al posto fisso, a una sorta di assistenzialismo del terzo millennio. Davvero è così? Esaminando le richieste dei Piccoli e delle partite Iva non pare del tutto. chiaro che il cahier delle rivendicazioni presenta richieste di generalizzazione dei diritti e delle prestazioni di welfare già riconosciute al lavoro dipendente. Ma, più che un convincimento assistenzialista, sembra l’individuazione del giusto mix tra mercato e tutele. Insomma, non si recede dalla scelta fatta di vivere nel mercato, si denuncia la condizione di Invisibili per sostenere una piattaforma minima di inclusione sociale. Del resto non ci sono stati negli ultimi mesi episodi eclatanti che testimonino il ritorno di una rincorsa all’ assistenzialismo. Le piccole imprese non hanno chiesto di essere salvate dalle Regioni o da qualche finanziaria delle ex partecipazioni statali, gli artigiani non hanno dato vita amanifestazioni antimercatiste e quando i Piccoli sono scesi in piazza le loro parole d’ordine sono state molto concrete. Nel primo caso pagamenti in tempi certi, Iva per cassa, taglio dell’Irap e altre misure più volte rivendicate dalle associazioni d’impresa, e nel secondo caso addirittura la denuncia della contraffazione e del commercio illegale che stanno mettendo in ginocchio la pelletteria toscana. Casomai, la differenza con il primo governo Berlusconi sta nel fatto che i vincoli di finanza pubblica (il rapporto deficit-Pil) fanno apparire come azzardata qualsiasi rivendicazione di taglio delle tasse o altro. Negli ultimi mesi, gli esponenti della Lega che sono intervenuti alle assemblee confindustriali sono stati costretti a sostenere la filosofia rigorista di Maastricht (a suo tempo avevano votato contro!) e a sconfessare le richieste della loro stessa base, favorevole a un alleggerimento immediato della pressione fiscale. Ma attenzione, una tattica politica tesa a non mettere in difficoltà il ministro Giulio Tremonti non va confusa con un cambio (che non c’è stato) di opinioni e di mentalità dei piccoli imprenditori. chiaro che ogni discorso sulla pancia sottintende una riflessione sul consenso. E il guaio, per l’Italia, è che le sue classi dirigenti più lungimiranti, per esempio quanti per tempo hanno sostenuto le battaglie europeiste, confondono il consenso con quella che considerano «pedagogia sociale». Scriveva lo storico Christopher Lasch a proposito della presbiopia delle élite americane degli anni Novanta: «La loro lealtà è di tipo internazionale, più che regionale, nazionale o locale. I loro esponenti hanno molte più cose in comune con le loro controparti di Bruxelles o di Hong Kong che con le masse di americani non ancora allacciati alla rete della comunicazione globale». Ma viene da obiettare: una società aperta è conciliabile con la presenza di una superclasse di pedagoghi? Sta in questo quesito, in fondo, il fallimento della modernizzazione italiana, l’aver contrapposto la ragione al consenso, la globalizzazione al territorio, il cosmopolitismo alla comunità.
Dario Di Vico