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 2010  febbraio 23 Martedì calendario

STALIN IN SEMINARIO APPRENDISTA TIRANNO - I

n un appunto della segretaria di Franklin Delano Roosevelt è scritto che all’ epoca della conferenza di Teheran (1943) il presidente americano «era molto incuriosito dal fatto che Stalin da giovane fosse stato destinato al sacerdozio». «Non credete che questa sua formazione abbia avuto una certa importanza?», chiedeva Roosevelt. Giusta intuizione, quella dell’ uomo della Casa Bianca. Nel 1931 Stalin stesso, in un’ intervista allo scrittore tedesco Emil Ludwig, accennò a come e quanto lo avessero cambiato gli anni giovanili trascorsi a scuola dai preti. «Sono diventato socialista al seminario», disse, «perché il tipo di disciplina che vi regnava mi faceva uscire dai gangheri. Quel seminario era un nido di spionaggio e di cavillosità. Alle nove del mattino ci riunivano per il tè e quando ritornavamo nei dormitori scoprivamo che tutti i cassetti e tutti gli effetti personali erano stati "visitati". E come frugavano quotidianamente nelle nostre carte, così frugavano tutti i giorni anche nelle nostre anime. Cose che non potevo sopportare, tutto lì dentro mi faceva infuriare». Fu dunque lo stesso Iosif Vissarionovic Dzugasvili a sostenere per primo che quel soggiorno tra i preti a Tiflis negli ultimi anni dell’Ottocento (dal 1894 al 1899) forgiò la sua tempra di rivoluzionario. Dopodiché gli storici hanno messo progressivamente a fuoco qualcosa di un po’ diverso: il seminario lo formò sì come futuro bolscevico, ma non solo perché ne fece un ribelle, bensì perché fu per lui scuola di metodo nel controllo degli altri. Ed è merito del nuovo libro di Simon Sebag Montefiore, Il giovane Stalin, che Longanesi manderà in libreria dopodomani, aver messo in luce quanta influenza ebbe sul futuro despota la figura del suo grande nemico di quegli anni giovanili, padre Dmitrij, al secolo principe David Abasidze, un «prete grottesco, grasso e scuro di pelle» da lui ribattezzato «Macchia nera». I lettori italiani già ben conoscono Montefiore - che insegna storia a Cambridge e che negli anni Novanta, per documentarsi su Stalin, ha compiuto un lungo viaggio nel Caucaso, in Ucraina e nell’Asia Centrale - di cui hanno potuto leggere nel 2005 il fondamentale Gli uomini di Stalin. Un tiranno, i suoi complici e le sue vittime, pubblicato da Rizzoli. Adesso Montefiore torna sulla figura del grande capo comunista, ma per approfondirne la formazione. Tema a cui fino ad oggi erano stati dedicati solo tre libri specifici: uno di Edward Ellis Smith, Stalin giovane (1967), in cui si avanza il sospetto - non corroborato da prove - che Stalin fosse stato un agente della polizia zarista; il secondo, Stalin il rivoluzionario. 1879-1929 di Robert Tucker, pubblicato nel 1974, cioè molto prima dell’ apertura degli archivi; e il più esauriente Chi c’era dietro Stalin di Aleksandr Ostrovskij, edito nel 2002. Ma anche rispetto a quest’ ultimo, il libro di Montefiore aggiunge una documentazione davvero imponente sul ruolo che il leader georgiano ebbe nelle rapine in banca, nei racket, nelle estorsioni, negli incendi dolosi, nell’assassinio e in molte altre manifestazioni di banditismo politico. Soprattutto poi la parte più interessante del libro è quella dedicata appunto al seminario sul cui edificio in età staliniana fu affissa una targa che recitava così: «Il Grande Stalin, capo del Partito comunista (russo) dei bolscevichi e del proletariato mondiale, ha vissuto e studiato qui, nel vecchio seminario teologico, dal primo settembre 1894 al 29 maggio 1899, dirigendo a Tbilisi circoli operai illegali». Il primo a mettere in grande evidenza questo particolare momento della biografia del tiranno era stato Robert Conquest nel suo Stalin, pubblicato da Mondadori nel 2002. Aveva notato, Conquest, come Stalin si fosse sempre espresso utilizzando forme tipiche della catechesi con innumerevoli ripetizioni di una stessa frase usata prima come domanda, poi come risposta (ad esempio: «Che cosa significa rettificare la selezione dei quadri? Rettificare la selezione dei quadri...»). E si era poi soffermato sulle incongruenze tra la scarna versione ufficiale di quegli anni giovanili del successore di Lenin e ciò che era realmente accaduto. Un caso tra tutti: Stalin ha sempre detto di essere stato radiato dal seminario per «aver diffuso il marxismo». Ma Conquest ha messo in luce come le cose fossero andate in modo assai diverso. È vero che Stalin nel 1897 si era avvicinato al movimento marxista di Noe Zordanija (futuro presidente della Georgia indipendente tra il 1918 e il 1921). È anche vero però che quando, verso la fine del 1898, Stalin «andò da Zordanija e gli disse che aveva deciso di lasciare il seminario per impegnarsi a tempo pieno nella propaganda fra i lavoratori, Zordanija gli pose alcune domande e scoprì che aveva solo una conoscenza superficiale della storia, della sociologia e dell’economia politica, tratta dagli articoli di "Kvali" (un settimanale socialista locale, ndr) e dal programma del Partito socialdemocratico tedesco; Zordanija gli consigliò di restare per un altro anno in seminario e di migliorare la sua formazione politica; Stalin rispose che ci avrebbe pensato, si risentì per quel diniego e fu sentito attaccare con calore Zordanija in un gruppo di studenti». Poi rimase in seminario fino al maggio del 1899, quando fu espulso perché aveva smesso di sostenere gli esami. Ma torniamo all’ inizio, all’ ingresso di Stalin, quindicenne, nel seminario teologico di Tiflis, l’ istituzione accademica più importante della Georgia. «Nella vecchia Russia», scrisse Trotskij, «i seminari erano famosi per la barbarie dei loro costumi, la pedagogia medievale, il pugno di ferro; tutti i vizi condannati dalle Sacre Scritture prosperavano in questi vivai di devozione». E quello di Tiflis, soprannominato il Sacco di pietra, non faceva eccezione. A guidare la scuola c’ era un terzetto composto dal rettore, l’archimandrita Serafim, dal suo vice, l’ispettore Germogen, e da «Macchia nera», l’ unico georgiano del trio. I monaci, riferisce Montefiore, erano ben decisi a cancellare ogni traccia di georgianità nei loro allievi, i quali, invece, rivendicavano con fierezza la loro appartenenza nazionale. La letteratura georgiana era del tutto bandita, così come, peraltro, tutti gli scrittori russi successivi a Puskin, compresi Tolstoj, Dostoevskij e Turgenev: «Due ispettori erano impegnati a tempo pieno in un compito di ininterrotta supervisione... Padre Abasidze dirigeva un gruppetto di allievi-spioni e passava gran parte del suo tempo aggirandosi furtivamente per tutta la scuola in punta di piedi o effettuando melodrammatiche irruzioni nei dormitori per cogliere in flagrante i ragazzi che leggevano libri proibiti, si masturbavano o dicevano parolacce». Nel decennio precedente a quello in cui vi soggiornò Stalin, gli anni Ottanta, in seminario il clima era stato assai teso. Nel 1885 allorché il rettore russo Cudeckij fece un’osservazione offensiva sulla Georgia, definendone la lingua «buona per i cani», uno studente lo schiaffeggiò (il ragazzo fu poi condannato a tre anni di prigione e in seguito divenne un rivoluzionario). Nell’anno successivo, nel giugno 1886, il rettore fu ucciso da un altro studente che era stato espulso e il giovane fu subito giustiziato. Successivamente il seminario rimase chiuso per un anno e dopo la riapertura si ebbero altri disordini provocati dalla incessante campagna di russificazione. Nel 1890 fu la volta di una sorta di sciopero generale degli studenti e nel 1893, l’ anno prima dell’ ingresso di Stalin, una sorta di movimento studentesco chiese il ripristino del georgiano come lingua di insegnamento, un corso di letteratura georgiana e l’ allontanamento di quella parte del personale che aveva avuto un comportamento più ostile nei confronti degli studenti. Nessuna delle richieste fu accolta, si ebbe un nuovo sciopero e l’esito fu l’espulsione di un’ottantina di alunni. Nel primo anno, Stalin, all’epoca con il nomignolo Soso, si distinse come uno studente modello, fu un discreto tenore e compose poesie che ottennero il plauso di critici disinteressati («Sarebbe persino possibile trovare motivi non puramente politici per rimpiangere il suo passaggio dalla poesia alla rivoluzione», scrisse il professor Donald Rayfield, che tradusse i suoi versi in inglese). Una delle poesie di Soso ha una storia particolare: fu composta in onore del principe Rafael Eristavi e inserita in un volumetto del 1899 dedicato al nobile georgiano; nel 1949 l’uomo simbolo del terrore staliniano, Lavrentij Berija, voleva che quei versi fossero inseriti in un volume che sarebbe stato dedicato al dittatore per il suo settantesimo compleanno; ma qualcuno diede l’ordine di non stampare il libro temendo che dietro l’operazione di ripescare quell’ode a un principe si celasse un complotto. L’anno successivo, 1895-96, Soso prese a leggere libri proibiti. Uno di questi, Il parricida di Aleksandre Kazbegi, raccontava la storia di un bandito caucasico, Koba, che si batteva con ogni mezzo, soprattutto quelli illegali, contro i russi. In omaggio a lui Stalin decise di cambiare il suo nomignolo e da Soso divenne Koba. Ed è dalla requisizione di uno di quei libri vietati, la Vita di Gesù di Ernest Renan, che iniziò la battaglia tra Koba e Macchia nera. Stalin componeva adesso versi satirici contro le autorità scolastiche. Un giorno, racconta Montefiore, «alcuni delatori riferirono la cosa a padre Abasidze, che si avvicinò furtivamente e origliò, quindi irruppe nella stanza e agguantò il quaderno; Stalin cercò di riprenderselo, il prete e l’adolescente lottarono, ma Macchia nera ebbe la meglio, fece trasportare il ragazzo nella sua stanza da quattro coetanei che lo tenevano, faccia in giù, ciascuno per un braccio o una gamba, e qui giunto costrinse queste anime impure a innaffiare gli scritti sovversivi con olio di paraffina; quindi appiccò il fuoco alle carte». La guerra tra Macchia nera e Stalin andò esacerbandosi sempre di più e ne è rimasta ampia traccia nel Giornale del seminario: Koba ricevette altre undici ammonizioni. Stalin, prosegue Montefiore, «non diventò prete, ma il seminario gli impartì un’educazione classica e questo ebbe su di lui un’enorme influenza. Macchia nera ne aveva perversamente fatto un marxista ateo, insegnandogli proprio quelle tecniche repressive - sorveglianza, spionaggio, invasione della vita interiore - che questi avrebbe poi ricreato nello Stato di polizia sovietico». Conquest definisce «sensata» l’ipotesi secondo cui proprio le esperienze in seminario diedero origine all’indole tetra e sospettosa di Stalin. Anche se, osserva, «i monaci, nel loro modo squallido, quando accusavano qualcuno di aver infranto le regole lo facevano almeno sulla base di prove concrete», mentre Stalin «quando era in auge, usava un sistema completamente diverso: faceva arrestare le persone e poi inventava le prove; e pur se certo fu per lui un’esperienza bruciante stare rinchiuso per ore nella cella di punizione del seminario, quest’esperienza non può essere paragonata con l’ordine dato da Stalin di estendere la pena di morte addirittura ai ragazzini di dodici anni». Certo il dittatore, allorché fu poi al potere, perseguitò spietatamente la Chiesa, fece assassinare e deportare i suoi preti. Ma quei preti, riferisce Montefiore, continuarono ad affascinare Stalin per tutta la vita; e quando incontrava altri ex seminaristi o figli di religiosi li sottoponeva a minuziosi interrogatori. «Se non ci fosse stato Lenin», dirà Stalin in vecchiaia, «io sarei rimasto un corista e un seminarista». Secondo un libro dissacrante, Stalin 1879-1953 di Jean-Jacques Marie, pubblicato in Francia nel 1967 e in Italia (da Samonà e Savelli) nel ’69, la rottura del futuro dittatore con il seminario fu totale «ma egli aveva imparato a dissimulare e a fingere abbastanza bene da sfuggire allo spionaggio dei monaci; non si abbandonava ad alcun moto di rivolta, salvo ogni tanto un sorriso sprezzante che gli valse una nota negativa, per atteggiamento generalmente volgare e irrispettoso verso i membri dell’amministrazione». «Il seminario», prosegue Marie, «ha indurito la sua volontà, gli ha insegnato il cinismo e la finzione: è riuscito a trascorrere due o tre anni recitando lezioni di cui non credeva una sola parola, dicendo delle preghiere che giudicava assurde... più tardi maneggerà le idee con l’indifferenza attenta di chi non cerca quella giusta ma quella utile». Un altro libro importantissimo, La guerra di Stalin contro gli ebrei di Louis Rapoport - edito da Rizzoli - spiegherà quanta linfa antisemita sia giunta nelle vene di Stalin in quei cinque anni trascorsi nel Sacco di pietra. In età matura Stalin avrà sempre più chiaro il nesso tra il suo metodo di comando e quel che aveva appreso dai preti in quei lontani anni di gioventù. E cercherà a suo modo di saldare il debito. A questo proposito Montefiore racconta un episodio di un qualche interesse. Il 4 settembre 1943, in piena Seconda guerra mondiale, il patriarca russo Sergio e due metropoliti vennero chiamati dall’esilio e convocati al Cremlino «per una bizzarra chiacchierata notturna». Stalin disse loro che aveva deciso di ripristinare il Patriarcato, le chiese e i seminari. Sergio obiettò che forse era presto per pensare ai seminari. Ma Stalin insisteva e con qualche dose di ipocrisia domandò: «Come mai non avete quadri? Dove se ne sono andati?». Anziché replicare che quei «quadri» Stalin li aveva fatti sistematicamente deportare e uccidere, il patriarca se la cavò con una battuta scherzosa: «Uno dei motivi è che noi formiamo un uomo per il sacerdozio e lui diventa maresciallo dell’ Unione Sovietica». Il dittatore sorrise compiaciuto e trattenne quei tre ospiti in chiacchiere fino alle tre del mattino. Paolo Mieli