Anna Guaita, Tuttoscienze-La Stampa 24/2/2010, pagina 33, 24 febbraio 2010
PICCOLI E PRIMITIVI, I MARZIANI CHE ARRIVARONO SUL METEORITE
Tra la cinquantina di meteoriti marziane note, quella di 2 chili scoperta ai piedi delle colline antartiche di Allan Hill nell’84 e chiamata ALH84001 mostrò subito caratteristiche straordinarie. Era un frammento di basalto antico 4,5 miliardi di anni e mostrava inclusioni vetrose formatesi 17 milioni di anni fa, dopo un impatto che lo espulse da Marte. La provenienza marziana era testimoniata dalla presenza, nelle inclusioni, di miscele di gas inerti (N2, CO2 e gas nobili), i cui rapporti reciproci erano identici a quelli riscontrati dalle sonde «Viking». Ancora più probante fu la misura dei rapporti isotopici (in particolare di quello Xeno129-Xeno132), lontanissimi da valori terrestri.
Un’altra peculiarità di ALH84001 era la presenza di un 2% di granuli di carbonati, tra 50 e 300 micron, depositati da acqua liquida 3,9 miliardi di anni fa. La loro struttura aveva qualcosa di «innaturale»: un cuore arancione di carbonato di calcio e manganese era circondato da una corteccia chiara di carbonato di ferro e magnesio, con i bordi anneriti da sottili depositi di cristalli purissimi di magnetite. Il 7 agosto 1996, durante una conferenza stampa a Houston, un team guidato da David McKay della Nasa presentò una serie di immagini al microscopio elettronico a scansione in cui, proprio là dove i granuli di carbonati erano ricchi di magnetite, si intravedeva una moltitudine di mini oggetti ovoidali, la cui forma richiamava in maniera impressionante quella di possibili batteri marziani fossili, anche se le dimensioni (tra 50 e 100 nanometri) erano da 10 a 100 volte più piccole di qualunque batterio terrestre.
Negli anni successivi le polemiche non si sono mai spente, fino a oggi. Al centro i granuli di magnetite. Secondo Hojatollah Vali dell’Università della Georgia, le inclusioni di magnetite pura presenterebbero una grande somiglianza con depositi dello stesso materiale che, chiamati «magnetofossili», vengono sintetizzati da alcuni batteri terrestri per orientarsi nel campo magnetico esterno. Un lavoro pubblicato nel 2000 da Mikhail Zolotov ed Everett Shock della Washington University, invece, sostiene che i granuli non avrebbero nulla di biologico: sarebbero frutto della decomposizione termica del carbonato di ferro e magnesio in cui sono immersi, in seguito a shock da collisione. Una «doccia fredda» che ha impegnato il gruppo di McKay in un lungo lavoro di revisione, sfociato, nel novembre 2009, in un articolo sulla prestigiosa rivista «Geochimica et Cosmochimica Acta».
Gli autori hanno sottoposto a riscaldamenti crescenti - fino a 500°C - un microcampione di carbonato di ferro e magnesio proveniente dalla miniera di Roxbury nel Connecticut e scelto per le analogie con quello presente in ALH84001. Il risultato è stato inequivocabile: qualunque fossero le condizioni, si formavano sempre cristalli di magnetite, ma non erano mai perfettamente puri. Rimane quindi - sostengono i ricercatori - una sola spiegazione: a depositare i cristalli sarebbero stati, 3,9 miliardi di anni fa, batteri marziani «magnetotattili».
Ma la storia non è ancora finita. Qualche settimana dopo, al convegno dell’«American Geophysical Union» di dicembre 2009, arriva l’ennesimo colpo di scena, il più clamoroso. Gli stessi ipotetici batteri fossili presenti in ALH84001 - annuncia il team di McKay - sono stati rinvenuti anche nelle Nakhliti, vale a dire 2 meteoriti marziane di età molto più giovane.
Va ricordato che la quasi totalità delle meteoriti marziane appartiene alla classe delle «SNC», in cui S sta per Shergottite (da Shergotty, in India dove, nel 1865, venne scoperto il primo di 43 esemplari), N sta per Nakhlite (dalla località egiziana di El Nakhla, dove, nel 1911, cadde il primo di 8 esemplari) e C sta per Chassignite (dalla cittadina francese di Chassigny, dove, nel 1815, è stato rinvenuto il primo di 2 esemplari). Tutte presentano un’anomalia: si formarono su Marte «solo» 1,3 miliardi di anni fa. Era stata la speranza che l’età più giovane potesse comportare la presenza di tracce batteriche più evolute di quelle primordiali (vale a dire nanometriche) riscontrate nei carbonati di ALH84001 a spingere McKay a estendere le analisi: gli obiettivi erano proprio la prima Nakhlite e l’ultima (chiamata Yamato 593 e scoperta in Antartide nel dicembre 2000). In entrambe la roccia basaltica è stata modificata dall’acqua, con generazione di iddingsite e carbonati, intorno a 600 milioni di anni fa.
Là dove c’era stato contatto con l’acqua, le analisi al microscopio hanno ritrovato tutte le possibili strutture «biomorfe» che ci si dovrebbe aspettare da un’attività batterica. Si tratta di oggetti ovoidali isolati, sovrapposti o «affogati» nell’iddingstite. Su di essi è stato anche riscontrato un eccesso di ossido di ferro e carbonio. La forma e le dimensioni (tra 1 e 10 micron) appaiono incredibilmente simili ad analoghi terrestri attuali o fossili. A volte, poi, sulla superficie dell’iddingsite si riscontrano depressioni irregolari, con tracce di materiale ricco di carbonio: i batteri potrebbero avere corroso la roccia per trovarvi una comoda collocazione e poi avervi lasciato tracce biologiche, dopo la morte.
La conclusione, insomma, per McKay, è chiara: nelle meteoriti marziane venute a contatto con l’acqua sia nel lontano passato (come accadde per ALH84001) sia più di recente (come per le Nakhliti) si ritrovano tracce di batteri fossili tanto più simili a quelli terrestri quanto più tempo ci fu per la loro evoluzione. Non solo. La vita potrebbe essere ancora presente su Marte, se le emissioni di metano, scoperte di recente, fossero dovute, come sulla Terra, proprio all’attività di alcuni batteri.
Il thriller marziano continua.
Anna Guaita