Richard Newbury, La Stampa 23/2/2010, pagina 32, 23 febbraio 2010
ORWELL, IL FARDELLO DEL SANTO LAICO
’La maggior parte di quelli che sembrano i paradossi del pensiero e degli scritti di Orwell si possono spiegare con il fatto che era nato in un’epoca in cui le più grandi stupidaggini le dicevano i reazionari e viveva in una in cui a dirle erano i progressisti», scriveva negli anni 50 il romanziere di sinistra John Wain. Effettivamente nessuno scrittore avrebbe potuto permettersi tanti paradossi neanche in un personaggio inventato, ma George Orwell, come spiegava il suo amico e compagno di scuola a Eton Anthony Powell, scrittore pure lui, era per metà innamorato di ciò che odiava e per metà profondamente conservatore - addirittura reazionario - in tutto tranne che in politica.
In questo ambito avrebbe dimostrato un precoce anti-imperialismo nel 1927 dando le dimissioni dalla polizia birmana, un precoce anti-fascismo nel 1936 quando, nella guerra civile spagnola, fu gravemente ferito dai franchisti ed evitò per un pelo di essere eliminato dagli stalinisti, e un precoce anti-comunismo con La fattoria degli animali nel 1944 e con 1984 nel 1946-48, quando il grande alleato «zio Joe» Stalin era ancora visto come il salvatore della civiltà. Ciò non gli impedì di rifiutare un seggio tra i laburisti nel 1945, in quanto «il Labour non era abbastanza a sinistra».
«La gelida coscienza della sua generazione», come il critico V. S. Pritchett definì Orwell, era considerato «un santo laico». Era disposto a vincere la sua schizzinosità beneducata per vivere come un barbone e riusciva a trovare «deliziosi» i surrogati alimentari del tempo di guerra. Però il suo modo predatorio e inopportuno di saltare addosso alle donne, quasi fosse un animale da cortile, oggi verrebbe considerato inequivocabilmente criminoso. Come Orwell diceva di Gandhi, «tutti i santi andrebbero considerati colpevoli fino a che non ne venga comprovata l’innocenza».
Lui, ispettore della polizia imperiale indiana fiero di essere nato in India, considerava Gandhi colpevole di non-violenza, dato che proprio per l’assenza di una rivolta militare era stato facile per i britannici protrarre il loro dominio sull’India. Con tutto ciò, Orwell non sapeva se odiava di più i birmani che «controllava» o l’imperialismo britannico. In Gran Bretagna odiava irrazionalmente gli scozzesi, sebbene avesse un nome scozzese, e ciò nonostante per scrivere 1984 lasciò la Londra letteraria per la remota isola di Jura, nelle Ebridi. Adorava l’«inglesità», sebbene fosse per metà francese, e si diceva che avesse un’eccessiva familiarità, in tutti i sensi, con gli indigeni.
Era un ateo fervente però gli capitava di frequentare le chiese, fu sposato due volte da un pastore anglicano e specificò nel testamento che voleva essere sepolto in un cimitero anglicano. Aveva scelto la carriera di poliziotto imperiale, era noto per essere un despota con venature di sadismo, però scrisse la condanna più schiacciante dello Stato di polizia. E pur avendo inventato il Grande Fratello, era uno che spiava le opinioni politiche dei suoi compagni della bohème londinese. Scrittore di grande chiarezza sull’importanza della verità e della memoria storica, risparmiava però sulla verità negli scritti autobiografici, a partire dai quali creò i suoi romanzi e ovviamente quello che è il capolavoro di Eric Blair (il suo vero nome): George Orwell. Come disse il suo amico Arthur Koestler: «Io non credo che George abbia mai saputo che cosa fa funzionare gli altri, perché ciò che faceva funzionare lui era molto diverso da ciò che faceva funzionare gli altri».
Un decennio più tardi, gettando via la carriera di ispettore in Birmania, ne spiegò le ragioni nel libro-documento La strada di Wigan Pier: «Avevo coscienza dell’immenso fardello di colpe che dovevo espiare. Suppongo che questo suoni esagerato; ma se faceste per cinque anni un lavoro che disapprovate totalmente, forse vi sentireste come me. Avevo ridotto tutto alla semplice teoria che gli oppressi hanno sempre ragione e gli oppressori sempre torto: teoria sbagliata, ma risultato naturale dell’essere uno degli oppressori. Sentivo di dover scappare non solo dall’imperialismo ma da qualunque forma di dominio dell’uomo sull’uomo. Volevo immergermi negli oppressi, essere uno di loro, al loro fianco contro i loro tiranni. Soprattutto, poiché avvertivo la necessità di riflettere a fondo in solitudine, ho portato il mio odio per l’oppressione molto, molto lontano».
L’educazione privilegiata, ma assolutamente normale per la sua classe sociale - e che all’epoca Orwell sembrava gradire molto - divenne più tardi un modello di oppressione totalitaria e imperialistica. Orwell aveva un rancore astioso verso il sistema educativo privato britannico in cui era cresciuto da privilegiato e verso la sua vita di ispettore di polizia nell’impero britannico, che pure era palesemente diverso da tutti gli altri imperi del XX secolo, tant’è vero che tutti gli altri un Gandhi lo avrebbero ucciso. Questo rancore fu poi trasformato e riconosciuto come null’altro se non grezza esagerazione da quelli meno fortunati di Orwell, che sperimentarono nella realtà il fordismo tecnologico del controllo statale totale sulle popolazioni ridotte a topi di laboratorio.
Gli scritti di Orwell andavano al nocciolo dell’esperienza di chi viveva in uno Stato di polizia totalitario, in un eterno presente animalesco senza memoria, lingua o speranza. La fattoria degli animali è una fiaba che racconta di animali che agiscono come uomini. 1984 è un reportage su uomini che agiscono come animali. «La morale da trarre da questo incubo pericoloso - scrisse Orwell in 1984 - è una sola: ”Non permettere che accada. Dipende da te”».
«Il peccato di quasi tutte le persone di sinistra dal 1933 in avanti è che volevano essere anti-fascisti senza essere anti-totalitari», scrisse Arthur Koestler nel 1944. L’enigma finale di Orwell è che fu quasi solo lui, come risultato delle sue esperienze nella guerra civile spagnola, a vedere e raccontare nel suo Omaggio alla Catalogna come la tirannide fu contrastata da due gruppi distinti di persone: quelli che si opponevano in nome della libertà e quelli che combattevano con la speranza di sostituire la tirannide vecchia con una rivale, nella quale sarebbero stati loro a esercitare il potere. Grazie a Orwell, dal 1937 le linee di combattimento sono state tirate non tra destra e sinistra ma tra democrazia e totalitarismo.
Richard Newbury