Fabio Martini, La Stampa 23/2/2010, pagina 1, 23 febbraio 2010
PERTINI E LO SPETTACOLO DELLA POLITICA
In cima al Colle era stato il Presidente più esuberante nella storia della Repubblica, ma quando giunse il momento di congedarsi dalla vita, Sandro Pertini fece spegnere i riflettori. Era un giorno di febbraio di 20 anni fa e la vedova, la «compagna Carla», fece in modo che nessuno sapesse a che ora il carro funebre avrebbe lasciato la casa di piazza Trevi.
E così, alle prime luci dell’alba del 27, solo pochi curiosi videro partire il più piccolo corteo presidenziale della storia: tre macchine con amici e parenti, in coda due soli cronisti, gli unici testimoni. Tv e agenzie? Nemmeno l’ombra. Il corpo senza più vita del «Presidente più amato degli italiani» più tardi approdò al cimitero di Prima Porta. Qui, la bara in mogano era stata avviata verso il forno del crematorio e la signora Carla aveva atteso in macchina, in silenzio. E quando un commesso del cimitero le aveva consegnato l’urna con le ceneri, lei l’aveva poggiata sulle ginocchia, l’aveva baciata e l’aveva avvolta dentro la vecchia bandiera socialista che il suo Sandro aveva sventolato il 25 aprile nelle piazze di Milano.
Volle congedarsi in silenzio, ma era stato il Presidente più istrionico della Repubblica. Sandro Pertini era morto il 24 febbraio 1990, ma il suo settennato (concluso 5 anni prima) era stato diversissimo da quelli dei suoi notarili predecessori. Certo, diverso dagli altri, Pertini lo era già prima di diventare Capo dello Stato: la sua era stata una vita da eroe. I tribunali fascisti erano riusciti a condannarlo sei volte per le sue idee, una volta era stato catturato e condannato a morte dalle SS, ma era riuscito a sfuggire ai suoi aguzzini. In carcere si era ammalato, la mamma chiese la grazia al Duce, ma il giovane avvocato socialista se ne dissociò pubblicamente: «Perché, mamma, perché? Nella mia cella di nascosto ho pianto lacrime di vergogna, mi sento umiliato al pensiero che tu abbia potuto pensare che io potessi abiurare la mia fede politica pur di riconquistare la libertà».
Il trantran della politica repubblicana non era fatto per lui («cuore di leone, cervello di gallina» disse di lui un altro grande socialista come Riccardo Lombardi), eppure quando a 82 anni, diventò Capo dello Stato Pertini sparigliò. Nell’estate del 1978, la politica è al punto più basso di credibilità e il nuovo Presidente è considerato un vecchio rompiscatole, privo di senso politico. Ma lui dall’autunno inizia a terremotare protocolli ingessati: si mette a chiacchierare liberamente con i ragazzi delle scuole («Fuori i professori!») e a fine settennato saranno trecentomila gli studenti ospitati al Quirinale. Eccolo volare alla finale dei Mondiali di calcio del 1982 ed esultare (è una prima volta, modello per tanti altri politici) con i vincitori; eccolo trascorrere tutta la notte accanto al pozzo che ha inghiottito il piccolo Alfredino Rampi; eccolo abbracciare in Libano la piccola mascotte Mustafà; arriva persino a telefonare in diretta a «Domenica In» di Pippo Baudo; si occupano di lui rotocalchi come Oggi e Gente. I suoi messaggi di fine anno, pronunciati a braccio, contengono battute sferzanti. Scriverà qualche anno dopo, in un suo saggio, Gianni Statera, sociologo della comunicazione: «Se Pannella è stato un precursore della politica-spettacolo, Pertini è l’uomo che segna il punto di svolta della cultura politica italiana nel senso della spettacolarizzazione personalizzata».
Dunque, Pertini anticipatore della politica spettacolo. Anche precursore della stagione berlusconiana? Un paragone irriverente per il Presidente partigiano? Un personaggio come Antonio Ghirelli, che di Pertini è stato portavoce, la mette così: «E’ verissimo, Pertini ha cambiato il modo di comunicare dei politici italiani con la gente, col suo linguaggio diretto e chiaro. Ma attenzione: lui era un eroe. Quando uno ha avuto quella vita, parla con un disinteresse personale quasi sacro. Era un impulsivo, non calcolava le conseguenze delle sue parole. Sì, lui è stato un precursore della cosiddetta politica-spettacolo, ma si servì dell’effetto spettacolare per avvicinare cittadini e Stato in una stagione molto difficile». Lettura originale e penetrante, perché l’altro proverbiale tratto della presidenza pertiniana fu proprio quello sforzo di accorciare lo spazio tra la gente e le istituzioni. Il 26 novembre 1980 arriva nell’Irpinia colpita dal terremoto, denuncia «mancanze gravi». Quando scoppia lo scandalo della P2, «piaccia o no», «io accuso quelli della Loggia!»; si dice «umiliato» per le indagini sulla strage della stazione di Bologna.
Fino a Pertini, il Quirinale non era stato un piedistallo per conquistare un consenso di massa, ma la lezione pertiniana è stata sviluppata da Presidenti come Carlo Azeglio Ciampi e Giorgio Napolitano, in vetta alle classifiche di gradimento e fiducia, mentre nel vulcanico rush finale di Francesco Cossiga si ritrova tanto di quella «verve anticonformistica» che il presidente sardo ha riconosciuto al suo predecessore. Il Presidente partigiano che, lasciando il Quirinale dopo sette anni indimenticabili, uscì dal suo studio, ma qualche attimo dopo volle rientrarci. Per spegnere la luce.
Fabio Martini