Vittorio Sgarbi, Panorama 25/02/2010, 25 febbraio 2010
L’ARTE DI INSULTARE
Pensando alla quantità di moralisti che mi hanno rimproverato nel corso degli anni insulti e invettive, richiamandomi a un controllo e a una misura convenienti al ruolo e alla dignità di intellettuale, non può che rassicurarmi la raccolta di pensieri pubblicata con il titolo L’arte di insultare di Arthur Schopenhauer che Panorama offre adesso ai suoi lettori. Nessun dubbio che un pensatore originale non potesse ridurre una delle forme più liberatorie del pensiero vero e libero, che aumenta la propria forza di vita nell’invettiva, a una questione di buone maniere.
Occorre dire, invero, che la prova del successo dell’insulto appropriato è nella strabocchevole quantità di approvazione soprattutto nel popolo più semplice e nelle persone anziane, che sembrano avere maturato la convinzione che il moralismo è cosa d’altri. Continuamente ne incontro che si compiacciono dei miei sfoghi e che mi incitano a continuare in un processo di identificazione o di liberazione. In numerose occasioni ho incontrato le tipiche vecchiette, anche eleganti, divertite e curiose, pronte a dirmi, all’orecchio: «Lei mi piace soprattutto quando dice le parolacce».
Schopenhauer argomenta in molti modi e non esorta a praticare l’arte dell’insulto. Ma la comprende e la interpreta suggerendo, come «extrema ratio», quasi con metodo: «Quando ci si accorge che l’avversario è superiore, e si finirà per avere torto, si diventi offensivi, oltraggiosi, grossolani, cioè si passi dall’oggetto della contesa (dato che lì si ha partita persa) al contendente e si attacchi in qualche modo la sua persona». Mi permetto di contraddirlo, giacché la mia pratica, quasi quotidiana, dell’insulto ha ben diversa origine, e subentra per l’insopportazione del torto altrui che si maschera sotto forme ragionevoli. La natura del mio insulto è conseguenza dello scambio tra errore di fatto e opinione.
Un voto insufficiente a un compito di matematica sbagliato non è un insulto, ma è la conseguenza dell’errore. L’evidenza non ammette discussione, ma se si esce dal campo dei riscontri oggettivi si aprono praterie di insensatezze e pretese senza fine. Tutti quelli che non sanno quello che dicono pensano di poterlo dire in nome della libertà pretendendo rispetto. Così, se uno insiste nel manifestarmi l’assoluta convinzione che io sia proprietario di una Mercedes rossa a tre ruote, non ascoltando ragioni quando gli dico esser la mia automobile nera con quattro ruote, alla mia reazione stizzita oppone: «Lei non rispetta le mie idee, le mie opinioni». La verità è cosa diversa dall’opinione e riguarda l’evidenza delle cose.
Il problema è come misurarsi con questo spazio di inferiorità e di imbecillità che non è correggibile e che non è riducibile alla ragione. E proprio in quel momento, nella convinzione di non poter essere persuasivi, si ricorre all’insulto; anzi, l’insulto finisce con l’essere la forma più alta di considerazione, rispetto all’atteggiamento di superiorità di chi lascia correre con indulgenza, indifferente all’altrui errore.
In sostanza, ciò che mi ha guidato nella mia lunga carriera di insultatore, con diffusa soddisfazione, è il principio democratico di non considerare nessuno indegno della mia ira. Una disposizione generosa che, in verità, nel corso degli anni, viene diminuendo. Accade anche a me, come alle persone cui si riconoscono buone maniere, di lasciar perdere, di non scaldarmi. E, alla fine, di lasciare il contendente nella sua errata convinzione, senza contraddirlo. L’insulto contiene una passione che richiede impegno, amore per gli altri, disponibilità. Spesso, dopo uno sfogo, è vero che ci si sente meglio, ma è altrettanto vero che ci si sente svuotati, senza forze, come dopo una prova fisica.
Né puoi scegliere di astenerti perché l’insulto, soprattutto quello più genuino, è un istinto, è incontenibile. Ci si potrebbe richiamare all’autocontrollo se si fosse deciso di adottare come misura dei propri comportamenti l’ipocrisia, con l’obiettivo di tenersi buoni tutti e di non farsi turbare dal disordine del mondo. Ma è proprio per questo che esso si afferma. Per l’infinita quantità di impuniti che agiscono nell’errore e nella inconsapevolezza stessa di compierlo: il che è più grave dell’errore. Non è detto che l’insulto riesca a correggerli, ma, per lo meno, li avverte di una contrarietà, li costringe a una riflessione i cui esiti non sono garantiti, ma potrebbero manifestarsi.
Se ripenso alla mia vita, trovo che niente è stato più persuasivo, nel tempo della mia infanzia e della mia adolescenza, del carattere infiammabile di mio zio, Bruno Cavallini, i cui argomenti erano spesso esposti con arrabbiature, invettive, alterazioni impetuose, come un crescendo musicale. E sempre per affermare un principio o un concetto fraintesi o malintesi. Certe sue ire esaltavano e preoccupavano ma, almeno nel mio caso, sempre convincevano. Credo che sia stato lui, piuttosto che Schopenhauer, a rassicurarmi e probabilmente ad avviarmi sulla strada dell’insulto.
Difficile dimenticare il mio esordio televisivo con l’esclamazione «stronza!» all’indirizzo di una poetessa che, per difendere la bontà di un suo elaborato letterario, mi apostrofò con cinque «asino!». L’Italia sussultò; Beniamino Placido scrisse del dibattito che ne derivò: «Sgarbi fa più notizia della mafia». Era il 1989. Da allora molti «stronzi» sono passati, senza troppi danni, davanti ai nostri occhi e sotto le nostre orecchie. Ma quello fu molto costoso: dovetti risarcire con 60 milioni di lire l’onore offeso della poetessa, e mi furono scontati a 40, perché io risposi alla sua querela con una mia per gli «asini», valutati 20 milioni di lire. Un «maiale!» da cui fui poi assolto fu in primo grado quotato 500 milioni. Ed è da allora che io l’ho sostituito con la più innocua «capra!» che, anche ripetuta 20 volte, non è nel listino prezzi delle offese. La capra è un animale gentile, ma è dotata di consonanti forti. Ed evoca la formula corrente «ignorante come una capra».
La fattispecie dello «stronzo» è però diversa e contraddittoria. In realtà «stronzo!» non è un insulto perché non presuppone una inferiorità del destinatario; non è una condizione, una natura stabile, una sostanza come le definitive «merda», «coglione»: definitive e diminutive. «Stronzo» è una condizione transitoria, non un attributo. «Stronzo» è qualcuno che fa il bene proprio e il male altrui. uno intelligente, abile, furbo che, per difendere i propri interessi, non guarda in faccia a nessuno. D’altra parte vale anche nella sfera amorosa. La stessa donna, generosa con l’uno e restia con l’altro, nello stesso momento, è buona per l’uno e «stronza» per l’altro.
A questo punto della mia vita posso dire che le liti sono diventate per me un genere letterario, modernamente trasferito nella dimensione del video e, dopo la lunga stagione di produzione orale, riprodotto nella sfera consultabile di Youtube, dove il richiamo a momenti memorabili per l’invettiva o per i lampi d’ira può essere rivisto, riascoltato, come si fa con un disco o un dvd.
Nell’arco di più di vent’anni ciò che era improvviso ed effimero è riprodotto, conservato, consultato. In taluni casi confina con il genere comico.
Michele Serra lo ha registrato in una sua nota, osservando che le mie urla sono entrate nella sfera domestica: «Mentre sfaccendo per casa con la tv accesa, sento Sgarbi urlare in sottofondo, non so in che trasmissione, non so a proposito di che cosa. Sgarbi che urla è come Mina che canta, come la sigla del meteo, come Mike che invoca ”Allegriaaaa!”. un rumore domestico, una consuetudine familiare. Interrompo per un istante le mie ”cure” quotidiane e rifletto, quasi affettuosamente, sulle origini ormai remote di quel suono. Sgarbi cominciò a urlare quando ancora ero giovane, quando i miei genitori non mi avevano ancora lasciato, quando i miei figli non erano nati. Urla, dunque, da generazioni. un urlo temprato e duraturo. un urlo – come dire – della classicità. Direi che le successive urla, e i successivi urlatori, sono appena degli emuli, e gli sono tributari come gli allievi al maestro. L’urlo di Sgarbi è il nostro urlo di Munch, segna il tardo Novecento e approda con sicurezza nel Terzo millennio... Nessuno, tra i posteri, si chiederà perché mai Sgarbi urlasse. Ma tutti avranno nelle orecchie quel clangore insieme umano e metallico che a tratti echeggia tra le mura di casa. Ci si addormenteranno i bambini».
Stretto fra Schopenhauer e Serra posso starmene in pace. Finalmente compreso, non avrò bisogno di urlare le mie ragioni. Così, l’altra sera, mi sono trattenuto. Avevo di fronte, al ristorante I due ladroni a Roma, alla fine di una cena del gallerista Larry Gagosian, in occasione della mostra di Chris Burden, un campione di impenetrabile ottusità, una critica d’arte, chiusa nel suo tetragono dogmatismo, indisponibile ad ascoltare ragioni che non fossero previste nel suo finto orizzonte internazionale. Difficile vedere una persona più indisponente. Io tentavo di spiegare alcune ipotesi per stabilire quali artisti italiani potessero meritare attenzione. E senza averne nominato nessuno, esponevo il concetto che sarebbe stato bene chiedere il punto di vista di scrittori e pensatori del nostro tempo come Arbasino, Ceronetti, Calasso, Magris, Citati, Scalfari, Sartori, Eco, Settis, Paolucci e altri saggi, ma non curatori di una riserva di malati. Grandi osservatori attenti al nostro tempo, alla cultura, alla letteratura, all’arte. La poverina mi guardava fremente, stizzita e indignata. Sicura del fallimento della scelta. Annoiata, superiore, nevrotica. E non aveva ancora sentito il nome di nessun artista. Ma era pronta a bocciarlo.
In altri tempi l’avrei trattata come la poetessa. Questa volta le ho chiesto se conosceva Tiziano e Pietro Aretino che lo aveva sostenuto. Nessuna risposta. Inutile avanzare altri argomenti. Le ho semplicemente detto: «Come può parlare di bellezza con una faccia così brutta?». Non ha resistito. Si è alzata e se ne è andata. E io ho rimpianto Rosy Bindi che avevo definito «più bella che intelligente».