Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2010  febbraio 25 Giovedì calendario

COME VA DAVVERO L’ITALIA NELLA CRISI?


La crisi dell’economia mondiale è iniziata nell’agosto 2007, con lo scoppio della bolla immobiliare americana (i cosiddetti mutui subprime). Si è poi aggravata di colpo nel settembre 2008 con il fallimento della Lehman Brothers. Da allora abbiamo sempre sentito due sole canzoni. Quella del governo, che ha ripetuto instancabilmente che l’Italia ha retto, e anzi se l’è cavata meglio della maggior parte degli altri paesi. E quella dell’opposizione, che altrettanto instancabilmente ha ripetuto che siamo andati peggio degli altri paesi, e che il governo doveva e poteva fare di più.

Ora sono passati più di due anni e, con la comunicazione da parte degli uffici statistici europei dei principali dati del 2009, siamo nelle condizioni di tracciare un primo bilancio. Consideriamo i 12 paesi che formano il nucleo storico dell’area euro, nel senso che vi sono entrati fra il 1999 e il 2001: Italia, Germania, Francia, Spagna, Grecia, Austria, Paesi Bassi, Belgio, Irlanda, Finlandia, Portogallo, Lussemburgo. Per confrontare il comportamento di questi 12 paesi, accomunati dal fatto di avere la medesima moneta e i medesimi vincoli, li abbiamo messi alla prova su 10 indicatori. Si tratta di indicatori sui quali la maggior parte dei paesi, fra il 2007 e il 2009, ha registrato un arretramento più o meno ampio: un modo semplice di valutare la performance del nostro Paese è di controllare, per ciascun indicatore, la posizione dell’Italia nella graduatoria che va dal paese che è andato meglio, o meno peggio (1° posto in classifica), al paese che è peggiorato di più durante la crisi (12° posto in classifica).

Osservando il grafico possiamo vedere che l’Italia è andata malissimo, peggio della maggior parte dei paesi a noi comparabili, su produzione industriale (11° posto su 12), pil, export, disoccupazione, potere di acquisto (10°). andata male ma non malissimo (8° posto) su entrate tributarie, imposte indirette e occupazione (anche grazie al rafforzamento degli ammortizzatori sociali). andata discretamente quanto all’evoluzione del debito pubblico (6° posto). andata decisamente bene (3° posto, dietro ad Austria e Germania) quanto alla variazione dell’indebitamento netto, che è anche il parametro fondamentale ai fini del rispetto dei vincoli di Maastricht.

Si potrebbe concludere che il bilancio è complessivamente negativo, o perlomeno deludente. Ma sarebbe una conclusione affrettata. Molto dipende dal punto di vista da cui osserviamo la crisi. Se guardiamo all’andamento dell’economia reale, non sembrano esserci dubbi sul fatto che l’economia italiana ha confermato di essere fra le più fragili dell’area euro: è da 15 anni che cresciamo molto di meno della media europea, e il biennio della crisi non ha certo fatto eccezione. Se guardiamo alla politica economica, invece, il giudizio si fa più controverso.

 vero, come dice l’opposizione, che si poteva fare di più, ma forse è ancora più vero che quel «di più» non è precisamente quello che l’opposizione e le organizzazioni sindacali si aspettavano, ossia misure di stimolo ai consumi di dubbia copertura. Se il ministro Giulio Tremonti non avesse stretto i cordoni della borsa, ora probabilmente l’Italia sarebbe esposta agli attacchi della speculazione internazionale come lo è la Grecia, il costo del servizio del debito (cioè dei titoli pubblici) sarebbe molto maggiore e i costi della crisi li pagheremmo oggi, con tanto di interessi.

Il di più che si sarebbe potuto fare, purtroppo, è quello che da una decina d’anni nessun governo, di destra o di sinistra, osa fare, per timore di perdere il consenso: mettere mano alla modernizzazione dell’Italia, varare quelle riforme economico-sociali che nel breve periodo possono creare scontento ma nel lungo periodo sono l’unica strada per interrompere il declino.