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 2009  novembre 24 Martedì calendario

Biografia di Irving Fisher


Riportato in auge dalla crisi, l’economista Irving Fisher fu tra i sostenitori dello psichiatra Henry Cotton, che con i suoi interventi di «chirurgia preventiva» provocò una vera strage tra i malati di mente
Questa non è solo la storia di un grande economista che uccise sua figlia per fede nel positivismo. anche la vicenda di una strage di massa causata da un’aberrazione scientifica. Ed è il racconto di come una follia può essere giudicata dai contemporanei «il più decisivo progresso» nella ricerca medica. L’economista era Irving Fisher che l’attuale recessione ha riportato in auge e delle cui idee sull’inflazione e sulla moneta mi hanno tessuto gli elogi, in rapida successione in questi ultimi giorni, Marcello De Cecco e Giorgio Ruffolo. D’altronde già un mostro sacro come Aloys Schumpeter lo definiva «il più grande economista che l’America abbia mai prodotto». A lui si devono tra l’altro l’equazione di Fisher, il teorema di Fisher, la prima formulazione della curva di Phillips.

Un devoto magnate
D’intelligenza pronta e brillanti doti matematiche, prima del ’29 Fisher aveva accumulato enorme autorevolezza e cospicua fortuna personale (10 milioni di dollari dell’epoca), perse entrambe con la Grande Depressione. Pochi giorni prima del «giovedì nero», aveva affermato che «i corsi azionari hanno raggiunto quel che pare come un alto livello (plateau) permanente». Il giorno del crollo disse che era solo «una scossa lunatica». Anzi pensava che i valori sarebbero saliti ancora e anche nei mesi seguenti continuò a predire che la ripresa era dietro l’angolo: il discredito in cui cadde aiutò l’ascesa del prestigio di John Maynard Keynes.
Con la stessa certezza con cui esprimeva i suoi pareri economici, Fisher si batté per molte altre cause. Dopo essere stato tre anni in sanatorio (1898-1901) per curarsi della tubercolosi (malattia di cui era morto il padre), divenne igienista intransigente, vegetariano e fautore dell’eugenetica (cioè del «miglioramento» della razza), tanto che fu nominato segretario dell’American Eugenics Society. Fisher fu anche convinto fautore del proibizionismo alcolico, tema su cui scrisse tre volumi, in nome dell’igiene collettiva, dell’efficienza e della produttività sociale.
Fisher divenne molto amico di John Harvey Kellogg, il miliardario quacchero, fondatore dell’impero dei corn-flakes che ideò come sostituti igienisti e religiosamente accettabili al tradizionale breakfast di uova e pancetta. Fisher scrisse vari articoli per il magazine di Kellogg, Good Health. All’inizio del secolo, Fisher prese l’abitudine di portare tutta la famiglia nel famoso centro salute di Kellogg, il Battle Creek Sanatorium in Michigan, dove i Fisher praticavano idroterapia, dieta vegetariana, esercizio fisico e attenta sorveglianza della propria attività intestinale: le infezioni intestinali erano considerate particolarmente nocive dal devoto magnate. E nel 1914 Kellogg e Fisher parteciparono insieme al Primo Congresso Internazionale sul Miglioramento Razziale a Battle Creek.
Ma intorno al 1916 l’ubbidiente figlia del grande economista, Margaret Fisher, cominciò a dare segni di squilibrio mentale. Aveva passato i vent’anni, ma viveva ancora coi genitori e lavorava come segretaria personale del padre che nel 1918 le trovò un appropriato giovane con cui accasarsi. Ma proprio allora la ragazza cominciò ad avere allucinazioni auditive, a parlare di miracoli, a comportarsi in modo strano. Margaret fu ricoverata nell’aurea istituzione in cui allora i ricchi d’America solevano rinchiudere la follia familiare, il Bloomingdale Asylum a White Plane. Ma lì fu diagnosticata schizofrenica e non maniaca depressiva: una diagnosi grave, perché a quel tempo la schizofrenia era considerata incurabile.
Fu allora che i Fisher sentirono parlare dello psichiatra (allora si chiamava «alienista») Henry Aloysius Cotton e della sua «portentosa scoperta». Dal punto di vista universitario, Cotton aveva tutte le carte in regola: non solo aveva studiato nelle migliori università, ma era andato in Europa a perfezionarsi con psichiatri famosi come Alois Alzheimer, ed era diventato assistente del luminare di origine svizzera Adolf Meyer, tanto che a trent’anni era già primario del più importante manicomio del New Jersey.

Negli anfratti del corpo
Ma non è possibile comprendere il favore con cui fu accolta la sua «scoperta» senza immergersi nel clima dell’epoca, in cui faceva furore il «paradigma infettivo». Risaliva a pochi decenni prima la scoperta di Louis Pasteur e Robert Koch, tra gli altri, del ruolo giocato dagli agenti patogeni nel causare e diffondere alcune malattie. Era quel che Paolo Vineis ha chiamato il paradigma monocausale: la malattia come unico effetto di un’unica causa, bacillo, germe o virus, in una relazione biunivoca. Con questo paradigma e con la conseguente enfasi sulla disinfezione, di molte malattie si era conosciuto il meccanismo, di molte si era venuti a capo con la vaccinazione, e in generale da questi successi la medicina aveva tratto enorme prestigio proprio nel paradigma batteriologico.
Altre patologie risultavano elusive e irriducibili a questo schema: reumatismi, artriti, nefriti. E naturalmente le «malattie mentali» che allora erano attribuite o alla «degenerazione», per tare ereditarie, o, invece sulla scia di Freud, ai traumi infantili, ambedue tesi che Cotton qualificava di «pseudoscienza».
Al loro posto propose una teoria rivoluzionaria «che riduceva tutta l’eterogenea miriade di manifestazioni della follia a un’unica causa soggiacente» (Andrew Scull): la chiave stava nei germi e nel pus. In quegli anni si faceva largo l’idea in importanti settori della medicina che anche le malattie fino ad allora inspiegabili potessero essere interpretate come infezioni croniche, ma a bassa intensità, come «sepsi focali» annidiate in anfratti nascosti del corpo da cui pomperebbero tossine nel resto dell’organismo, attraverso il flusso sanguigno, la linfa, fino a provocare un’incredibilmente vasta panoplia di patologie.
Intorno al 1915 Cotton cominciò perciò a investigare sistematicamente i suoi pazienti del manicomio di Trenton, con raggi X, microscopi, e altri macchinari, per individuare le sepsi focali della follia che si nascondevano nel corpo per minare la mente. E questi germi Cotton li individuò, o credette di averli stanati, nelle gengive dei denti, e poi nello stomaco, negli intestini, nel collo dell’utero. Una volta individuati i germi, essi potevano essere eliminati e così guarire «l’85% dei casi di follia»: allora non esistevano gli antibiotici e l’unica via praticabile per eliminare i germi sembrava l’asportazione. Dal 1916 Cotton cominciò perciò a rimuovere denti. E se la follia permaneva, passò alle tonsille, ai seni nasali. Poi ai colon, alle milze, per una progressiva pulizia del corpo dei pazienti.
Può sembrare un delirio, ma questa teoria fu accolta addirittura con entusiasmo dalla buona borghesia statunitense. Fino ad allora la pazzia, con i suoi demoni, era una sentenza inappellabile per chi ne soffriva, una stigmate di vergogna e disonore per i familiari. Ed ecco che infine la scienza moderna mostrava che c’è un germe della follia, un batterio dell’insania e che basta rimuoverlo per condonare alle famiglie l’inferno casalingo: basta rimuovere un dente, o al massimo un tratto d’intestino e tutto tornerà normale. Alienati e alienate benestanti si precipitarono al manicomio di Trenton dai quattro angoli degli Stati uniti, pronti a pagare rette esorbitanti per farsi asportare la follia.

Il prezzo del progresso
Nel 1919 anche Irving Fisher affidò sua figlia a Cotton. Tutto predisponeva Fisher a credere nella sepsi focale: il suo igienismo, la sua cura per il funzionamento intestinale, la sua irremovibile certezza che qualunque problema potesse essere risolto da rimedi materiali, organici o meccanici che fossero. Dopo gli esami, Cotton diagnosticò un allargamento del colon, con un’impossibilità di usare i raggi X e quindi la necessità di una laparotomia. Poi Cotton scoprì che anche «il collo dell’utero era eroso». La diagnosi di Cotton lasciava aperto ai Fisher uno spiraglio di speranza che i medici di Bloomingdale avevano richiuso. Inoltre il quadro eziologico era affine alle idee maturate da Fisher stesso. Ciononostante i genitori erano esitanti, ma ad agosto accettarono la rimozione del collo dell’utero della figlia dopo che nei suoi tessuti era stato trovato un «puro bacillo del colon». Il 15 agosto Margaret fu operata. Fisher si consultò con Kellogg sul da farsi: Cotton spingeva per un’altra operazione agli intestini, però questa volta l’infezione scoppiò davvero nel corpo martoriato e il 7 novembre 1919 Margaret Fisher morì.
Ma era il prezzo del progresso: Cotton citò persino il suo caso (senza nominarla) in conferenze pubbliche, e Fisher continuò a credere alla teoria della sepsi focale. Nel 1921 Cotton tenne una serie di letture a Princeton, nell’ambito di un ciclo in cui nel corso degli anni furono invitati l’astronomo Edwin Hubble, il fisico atomico Robert Oppenheimer, il chimico Linus Pauling, il biologo Francis Crick. Quando furono pubblicate, le letture di Cotton furono recensite nel giugno 1922 dal New York Times con queste parole: «All’ospedale statale di Trenton, New Jersey, sotto la brillante guida del direttore sanitario, il dottor Henry Cotton, sta avanzando la più profonda, aggressiva, penetrante investigazione scientifica che sia mai stata condotta nell’intero campo dei disordini mentali e nervosi». Le malattie mentali stavano crescendo a un tasso quattro volte più rapido della popolazione, scriveva il New York Times, ma grazie a Cotton «c’è speranza». Di fronte a una storia come questa è inevitabile chiedersi quale delle teorie scientifiche e mediche in cui oggi crediamo duro come ferro sarà ridicolizzata in un futuro neanche troppo lontano. Quale delle nostre certezze sarà considerata follia.

Tecniche cruente
Margaret Fisher non fu la sola a rimanere sotto i ferri del dottor Cotton: lui stesso riconobbe che il tasso di mortalità era del 30%, ma un’assistente di Adolf Mayer condusse uno studio accurato delle cartelle cliniche dell’ospedale di Trenton e concluse che il tasso di mortalità era del 45%: quando gli furono presentati questi dati, il boss di Cotton, Adolf Meyer, soppresse i risultati e lasciò che la strage continuasse.
Come scrive in Madhouse il massimo esperto della vicenda, Andrew Scull, «quando Cotton morì d’attacco cardiaco nel suo club di Trenton nel 1933, centinaia di pazienti erano morti, e altre migliaia erano stati mutilati. Anche se la chirurgia addominale cessò con la sua morte, le altre tecniche di Cotton continuarono a essere usate per quasi tre decenni poiché una successione di suoi protegés furono nominati direttori sanitari a Trenton. Le sue vittime inclusero, amaramente, i suoi propri figli, Henry Jr e Adolph, cui furono strappati i denti come misura profilattica per la loro immatricolazione a Princeton. In seguito, ambedue si suicidarono».