http://www.comune.mansue.tv.it/vivere-a-mansue/personaggi-illustri.html, 4 ottobre 2009
Tags : Anno 1901. Raggruppati per paesi. Italia
VITTORIA AGANOOR
Vittoria Aganoor nacque a Padova il 26 maggio 1855. Di nobile famiglia armena, naturalizzata italiana, settima figlia del conte Edoardo Aganoor e Giuseppina Pacini, a Padova trascorse l’infanzia, spostandosi presto a Venezia con la madre. Andrea Maffei e Antonio Fogazzaro, tra gli altri, frequentavano la sua casa.
Tra i 18 e i 21 anni ebbe come maestro Giacomo Zanella, che fu testimone dei suoi primi passi da poetessa. Nel 1876 le fece pubblicare un saggio poetico che conteneva anche alcune liriche della sorella Elena Aganoor.
Nello stesso anno, la sua famiglia si trasferì a Napoli. La conoscenza di Enrico Nencioni la fece approdare alla lettura di autori stranieri e l’aiutò a mettere a fuoco le sue qualità.
Era particolarmente legata al padre, la cui morte avvenuta che lei era ancora giovane, le lasciò per sempre un vuoto incolmabile. Dopo questo lutto, Vittoria si trasferì nuovamente a Venezia, nel 1890 circa. Mantenne per lunghi anni rapporti epistolari con i padri mechitaristi dell’Isola di S.Lazzaro (o Isola degli Armeni, a Venezia) con cui suo padre, profondamente religioso, aveva stretto relazioni di amicizia. A questo periodo risale gran parte del suo carteggio epistolare, che testimonia della sua vivace attività intellettuale, insieme alle liriche pubblicate su varie riviste letterarie.
Fu suo amico il poeta Domenico Gnoli, con il quale scambiò una fitta corrispondenza fin dal 1898, quando Vittoria gli inviò una propria lirica da pubblicare sulla rivista da lui diretta.
Si incontrarono di persona a Venezia poco dopo, nell’agosto 1898, e la loro amicizia proseguì fino all’anno in cui Vittoria si sposò.
Di amori la Aganoor ne ebbe più d’uno ma, come spesso accade, quello della giovinezza lasciò segni profondi. Fu rivolto a Francesco Salvadego Molin. Purtroppo, il sogno fu interrotto dalla morte di costui.
Nel 1901 Vittoria sposò il deputato perugino Guido Pompilj.
All’inizio del 1910 essa si ammalò di cancro e il 7 maggio dello stesso anno morì nella clinica Pampersi di Roma.
Il dolore provocato dalla sua scomparsa portò il marito a togliersi la vita; dopo aver sistemato velocemente gli affari di famiglia più urgenti, si sparò quel giorno stesso. Il gesto di Guido Pompilj conferì un’aura romantica al loro matrimonio e pose le poesie di Vittoria in ottica del tutto nuova, favorendone la divulgazione.
Vittoria, estremamente garbata e piacevole all’esterno, nascose sempre il suo carattere tormentato e depressivo, che trovava sfogo, invece, in alcune sue liriche in cui si parla di incomunicabilità, desiderio di morte e di potenza, desiderio di libertà dalle regole e costrizioni del vivere civile. Si occupò per lunghi anni della madre, cui era legata da un forte legame affettivo, e solo dopo la sua morte, nel 1899, cominciò a pensare ad un proprio percorso di vita autonomo.
Precocissima nello scrivere, la sua natura perfezionista e ambiziosa la indusse a mostrare le sue poesie solo nella cerchia di conoscenti e amici, sollecitando il parere di insigni letterati dell’epoca, con i quali manteneva corrispondenza. Di tanto in tanto le sue liriche erano pubblicate su riviste letterarie, riscuotendo ammirazione e dandole una fama di poetessa aristocratica e riservata cui Vittoria teneva molto. Pubblicò soltanto a quarantacinque anni il suo primo libro, Leggenda eterna (1900), su sollecitazione dei suoi amici.
Considerata da Benedetto Croce una scrittrice spontanea e fresca ( La letteratura della nuova Italia), fu per lunghi anni reputata tale dalla critica letteraria, fino agli anni ’70, quando la sua opera venne rivalutata anche alla luce di un’edizione parziale delle sue lettere: Vittoria aveva sempre rifiutato l’immagine di poetessa immediata e spontanea e dichiarava di scrivere "di testa" e non con il cuore. Infatti, le sue liriche sono pienamente inserite nelle correnti letterarie del suo tempo, e mostrano richiami a Gabriele D’Annunzio, ai Crepuscolari, all’amato Giacomo Leopardi, e agli amici Nencioni e Gnoli.
Del 1908 le Nuove liriche: pacate, descrittive, chiare e armoniose come le prime, ma senza la "tensione" di quelle, la "teatralità" dolorosa che le aveva contraddistinte nel loro esprimere incomunicabilità e rivolta.
(testo tratto da”Mansuè, L’evoluzione della crescita”, Annalisa Fregonese, 1990)