Note: [1] La Stampa 18/8; Paolo Salom, Corriere della Sera 14/7; Boris Biancheri, La Stampa 4/8; [2] Anna Mazzone, Il Riformista 14/8; [3] Pio DཿEmilia, Lཿespresso 20/8; [4] Boris Biancheri, La stampa 4/8; [5] Paolo Salom, Corriere della sera 13/3; [6] Al, 23 settembre 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 24 AGOSTO 2009
Domenica prossima si terrano in Giappone le elezioni anticipate per il rinnovo della Camera Bassa della Dieta: tutti i sondaggi danno per vincitore il Minshuto, cioè il Partito democratico, che già controlla la Camera Alta. Poiché il Jiminto (Partito liberaldemocratico) governa quasi ininterrottamente dal 1952, la sua sconfitta sarebbe, per dirla con l’ex ambasciatore Boris Biancheri, una «rivoluzione copernicana». [1] Taro Aso, premier uscente, ha già invitato gli esponenti della ”balena gialla” a vivere l’eventuale sconfitta in modo aggraziato, «come una carpa catturata che non ha sussulti nemmeno quando il coltello la sfiora». [2]
Il Giappone è la seconda potenza economica del mondo (il sorpasso cinese è previsto per l’anno prossimo). [3] Il Jiminto, nato poco dopo la guerra, domina da allora la vita giapponese. Biancheri: «Questo monopolio di fatto di una sola parte politica, di orientamento moderato-conservatore che ricorda un poco la Democrazia cristiana in Italia tra gli Anni 50 e 80, non ha impedito tuttavia un corretto funzionamento degli strumenti democratici né ha creato tendenze dittatoriali nei suoi vari leader: altri partiti sono sorti, esistono ma non vincono; i primi ministri non diventano dittatori anche perché si alternano con ritmo vertiginoso e durano mediamente in carica un anno o poco più». [4]
Più che un partito, il Pld è lo Stato stesso. Biancheri: «Fortissimamente radicato sul territorio attraverso i piccoli proprietari agricoli, strettamente connesso all’industria, alla finanza, al commercio e soprattutto alla burocrazia che gestisce di fatto, in luogo e per conto del governo, l’intero Paese». [4] Masaru Tamamoto, ricercatore del World Policy Institute: «Dopo la nostra aggressione militare – e la conseguente sconfitta – nella Seconda guerra mondiale, lavoro sicuro e welfare sono diventati gli obiettivi della società. I burocrati hanno assunto il controllo di ogni dettaglio della vita quotidiana. Siamo diventati una nazione con impiego a vita, un sistema-azienda fondato sulla proprietà azionaria condivisa, un’immensa classe media di pari». [5]
Il primo colpo a questa chimera egalitaria (in Giappone c’è chi sostiene che la loro è «l’unica economia veramente socialista dell’area») è arrivato dallo scoppio della prima bolla finanziaria, nel 1990. Paolo Salom: «Ma è stata la crisi partita dai mutui americani nel 2007 ad aver dato il colpo di grazia al sistema. Che ora appare refrattario a qualunque cura». Gian Carlo Calza, autore di saggi come Stile Giappone (Einaudi): «Soltanto un uomo, in tempi recenti, ha osato provare una riforma alle radici: Junichiro Koizumi. Ma come ha toccato il sistema nei punti più sensibili, le rendite di posizione politiche ed economiche (riforma della Poste e delle pensioni), è scoppiato il pandemonio». [5]
All’inizio dell’anno il tasso di disoccupazione giapponese era ancora al 3,9 per cento, un’inezia in confronto all’Europa. Alessandro Rusic: «Ma nel Giappone famoso per l’orgogliosa identificazione del lavoratore con la sua azienda, è la prima vera crisi al tempo della flessibilità. La maggior parte dei licenziamenti colpisce infatti gli haken, i lavoratori temporanei, ormai un terzo del totale. Il fenomeno è frutto delle politiche introdotte dall’ex premier Junichiro Koizumi nel 2004. Una riforma all’americana: meno garanzie per i lavoratori, più libertà per le aziende. andata bene nel momento in cui l’economia giapponese sembrava poter riemergere dal declino degli Anni Novanta. Ma ora è arrivato il conto. E dato che la maggioranza degli haken vive nei dormitori dell’azienda, insieme al lavoro perdono anche la casa, diventando homuresu. Spesso da un giorno all’altro». [6]
Da quando il presidente della Canon Mitarai, divenuto presidente della Keidanren, la Confindustria giapponese, è riuscito a piegare le ultime resistenze dei sindacati confederali e a ottenere dal governo la liberalizzazione totale del lavoro in affitto, compreso il settore manifatturiero che ne era escluso, le aziende hanno smesso di assumere a tempo indeterminato. Makoto Kawazoe, leader di Seinen Union, nuovo e combattivo sindacato che sta cercando di organizzare i precari: «Per un paio di anni sono stati tutti contenti, industriali e lavoratori. Le aziende risparmiavano sui costi e i lavoratori pagavano meno tasse. Ma il meccanismo è saltato. I lavoratori flessibili sono i primi a essere licenziati». [7]
La crisi economica ha cancellato l’anomalia giapponese. Pio D’Emilia: «Quella che per anni era nota sotto il nome di ichioku-sochu-ryu: cento milioni di classe media». Takuya Tasso, giovane leader del Pd: «La nostra società sta dividendosi in vincenti e sconfitti, ricchi sempre più ricchi e poveri sempre più poveri». Masayoshi Ito, 29 anni, laureato che salta da un impiego all’altro: «A meno che tu non appartenga a una élite sempre più ristretta, a cui non si appartiene per l’università frequentata o per i voti ottenuti, ma per il tipo di agganci di cui dispone la tua famiglia, le possibilità di essere assunto a tempo indeterminato ormai sono ridotte a zero». [7]
Chi va a Tokyo è colpito dai milioni di macchine senza l’ombra di un graffio che circolano 24 ore su 24 e dai negozi pieni (compresi i lussuosi ristoranti). D’Emilia: «Ci si potrebbe chiedere allora: ma dov’è la crisi di cui tutti parlano? Pil in picchiata (meno 15,2 per cento, nei primi sei mesi), debito pubblico alle stelle (oltre il 180 per cento), aumento vertiginoso della disoccupazione (5,2 per cento, il dato più alto dal Dopoguerra), inarrestabile ”precarizzazione” del mondo del lavoro e dell’intera società. Due giapponesi su tre non hanno più un impiego a tempo indeterminato, si sposano (e fanno figli) sempre meno e si suicidano a un ritmo impressionante: oltre 34 mila l’anno. Uno ogni 15 minuti, più o meno». [3]
Adesso sembra che il Giappone stia un po’ meglio. Da aprile a giugno, il Pil è cresciuto dello 0,9%, su base annua l’aumento è stato invece del 3,7%. Trattandosi del terzo incremento consecutivo, tecnicamente il Paese è fuori dalla recessione. Sandra Riccio: «Dalla scomposizione del dato sul Pil emerge un quadro dai contorni ancora incerti: gli investimenti pubblici sono saliti dell’8,1% sui precedenti tre mesi (fino al portare la spesa pubblica appena sopra al 58% della composizione del Prodotto interno lordo), le esportazioni del 6,3% e i consumi delle famiglie dello 0,8%, a fronte di investimenti di capitale in calo del 4,3%». [8]
In soldoni, la peggiore crisi mai vissuta dal Giappone è stata combattuta a colpi di spesa pubblica in un paese dove il debito pubblico è già enorme. Anna Mazzone: «Se poi si va a guardare il Pil nominale, ossia quello che riflette le fluttuazioni dei prezzi e che è quindi più vicino al portafoglio dei giapponesi, allora è meglio riservare il brindisi a tempi migliori; una contrazione dello 0,2 per cento nel trimestre aprile-giugno indica un quinto trimestre di declino. E il tasso della disoccupazione continua ad essere elevato, sfiorando nel mese di giugno il 5,4 per cento (il dato più alto degli ultimi sei anni, ndr)». [9]
Anche se in modo ancora parziale, la più lunga recessione del Giappone si è comunque conclusa in primavera. Riccardo Sorrentino: « da diversi anni, però, che il paese asiatico deve convivere con una situazione piuttosto stagnante e con un progressivo declino del suo ruolo economico. Anche qui, come negli altri paesi asiatici, la crisi potrebbe in astratto diventare un’occasione per riequilibrare il modello di sviluppo, dando più importanza alla domanda interna. La situazione delle finanze pubbliche - il debito è vicino al 220% del Prodotto interno lordo - e quella dell’offerta di denaro - i tassi sono a quota zero da anni - rendono però gli strumenti di politica economica quasi inutilizzabili». [10]
Alla vigilia delle elezioni, l’economia è parte della storia, ma non tutto. Calza: «In realtà a Tokyo c’è un establishment, una classe politica che non sa più dove andare». [5] Koichi Nakano, docente di Scienze Politiche alla Sophia University di Tokio «Abbiamo cambiato tre premier in tre anni. I giapponesi sono stanchi di una politica che non offre leader di valore». [11] Biancheri: «La posta in gioco è questa: deve cambiare, il Giappone, o deve restare sostanzialmente ciò che è stato in tutti questi anni? Dobbiamo conservare il vecchio o scegliere il nuovo? un interrogativo che serpeggia anche in altre democrazie, per esempio in Europa dove le opinioni pubbliche si chiedono come restare al passo con i tempi ma dove lo spettro della recessione sembra piuttosto favorire chi conserva rispetto a chi innova». [4]
Aso, ”leader’ del vecchio, è stato il primo premier cattolico in un Paese di tradizione shintoista e buddista. Ha legami di parentela con la famiglia imperiale (sua sorella ha sposato un cugino del principe Akihito) e con alcuni politici ultranazionalisti passati alla storia del Paese, come Toshimichi Okubo, considerato il padre del Giappone moderno, e suo nonno Shigeru Yoshida, leggendario leader liberale nel dopoguerra. Raimondo Bultrini: «Rampollo di una delle più ricche famiglie del Sud, titolari di latifondi, industrie e tv, Aso ha studiato negli Stati Uniti e in Inghilterra, è stato mercante di diamanti in Sierra Leone, ha partecipato alle Olimpiadi di Montreal (era tiratore a volo, ndr)». [12]
Essendo le dinastie uno dei mali del Giappone (un terzo dei parlamentari e due terzi dei ministri sono figli o nipoti d’arte), il curriculum di Yukio Hatoyama, leader del ”nuovo” che in caso di successo sarebbe il prossimo premier, non fa sperare in grandi cambiamenti. D’Emilia: «Il suo bisnonno fu speaker del primo parlamento democratico; il nonno, Ichiro, ”graziato” dalle truppe di occupazione, è stato premier del Giappone nell’immediato dopoguerra, mentre il padre non è riuscito ad andare oltre il ruolo di ministero degli Esteri. In compenso, sposò l’erede dell’impero Ishibashi, più noto in Occidente sotto il nome di Bridgestone». [3]
Il 70 per cento dei deputati e senatori che dieci anni fa fondarono il Partito democratico proviene dalla Balena Gialla. [3] Minoru Morita, tra i più autorevoli commentatori politici del Sol Levante: «Il Giappone è un Paese conservatore e la cosiddetta alternativa di governo non sarebbe stata possibile se il Pd esprimesse una frattura netta con il passato. Il cambio di governo è possibile solo perché il Partito democratico, sbarazzatosi delle componenti più radicali, offre la possibilità di un ricambio formale, ma garantisce la continuità». [3]