Note: [1] Gian Antonio Stella, Corriere della Sera 10/7; [2] Gian Enrico Rusconi, La Stampa 16/6; [3] Beppe Severgnini, Corriere della Sera 9/7; [4] Bill Emmott, Corriere della Sera 14/7/2008; [5] Sergio Romano, Corriere della Sera 23/4/2008; [6] Ida Domi, 14 luglio 2008
APERTURA FOGLIO DEI FOGLI 13 LUGLIO 2009
«Perché mai il Cielo invia tali ricchezze a gente così poco in grado di apprezzarle?», si chiedeva il marchese de Sade. Gian Antonio Stella: «Oltre due secoli dopo, quel sentimento di sottile pregiudizio verso gli italiani, di ammirazione sempre smorzata da una certa incredula ironia, di amicizia venata da un pizzico di diffidenza, continua a riaffiorare anche dietro i giudizi degli stranieri su Silvio Berlusconi». [1] Gian Enrico Rusconi: «Gli osservatori europei sono sconcertati. Ai loro occhi l’anomalia italiana prosegue. Incomprensibile. Perché un numero così alto di italiani - si chiedono - accetta con indifferenza il conflitto di interesse di Berlusconi, i suoi scontri continui con la giustizia che finiscono in contumelie, i discutibili comportamenti privati, le intemperanze verbali contro gli avversari e le istituzioni?». [2]
Il G8 svoltosi impeccabilmente la settimana scorsa all’Aquila è stato preceduto dalle prese in giro della stampa di mezzo mondo. Beppe Severgnini: «Prima i media internazionali si sono divertiti con minorenni ed escort, che ormai sbucano come finferli dopo la pioggia. Poi il Guardian, senza citare una fonte rintracciabile, ha ventilato la nostra espulsione dal G8. Quindi il New York Times ha suggerito a Obama di prendere il volante. Il mondo ce l’ha con l’Italia? No. Ma un certo maligno godimento sembra evidente. Noi dimentichiamo di vivere nel luogo mitico per generazioni di viaggiatori colti – quelli che oggi scrivono e parlano nei media internazionali. Vedere ciò che avremmo potuto diventare, e non siamo diventati, dà il sapore amaro ai commenti. La delusione è il carburante della perfidia». [3]
Le critiche a Berlusconi, anche le più dure, sono legittime. Stella: «Ed è vero che qualche volta lui stesso se le va a cercare. Un esempio? L’invito agli imprenditori americani a investire da noi perché c’è il sole e ”oltre al bel tempo e alla bellezza dell’Italia, abbiamo anche bellissime segretarie”. Per non dire dell’insistenza sul nostro essere ”i più simpatici del mondo”. Nessuno sceglie un dentista o un chirurgo perché è ”simpatico”. E così il socio in un grosso investimento industriale. Detto questo, perfino gli avversari più critici avrebbero buoni motivi per essere infastiditi dal costante riemergere, attraverso il berlusconismo, di vecchi, rancidi, insopportabili stereotipi che hanno fatto soffrire e arrabbiare i nostri padri, i nostri nonni, i nostri bisnonni». [1]
«Non vediamo l’ora di trovare una scusa per riproporre i soliti pregiudizi e luoghi comuni sull’Italia e gli italiani», scrisse l’ex direttore dell’Economist Bill Emmott sul Corriere della Sera del 14 luglio 2008: «Ci godiamo non poco la tragica saga di Napoli e della sua spazzatura, e non vogliamo essere informati che gran parte del problema è stato risolto durante la campagna elettorale. Gongoliamo addirittura se si tratta di menzionare la mafia e il Vaticano (per motivi diversi, mi precipito a specificare). Siamo affascinati dalla possibilità che sotto il luccichio della vita politica italiana si nasconda qualche tremendo intrigo». [4]
Nell’aprile 2008, Sergio Romano rispose a un lettore del Corriere della Sera che si lamentava per i continui attacchi della stampa straniera a Berlusconi: «Gli inglesi sono i più duramente critici anche perché il loro giornalismo è tradizionalmente battagliero, aggressivo e irriverente. Gli americani sono altrettanto critici, ma fanno domande puntuali e professionalmente impeccabili. I francesi non hanno generalmente simpatia per Berlusconi, ma sono incuriositi, divertiti e hanno troppi scheletri nei loro armadi per assumere il ruolo dei giudici e dei censori. Gli spagnoli manifestano, nonostante tutto, una sorta di solidarietà latina. I corrispondenti tedeschi dei giornali più seri (lascio da parte quelli della stampa popolare) sono desiderosi di comprendere e spiegare». [5]
«Noi italiani leggiamo Berlusconi con occhiali speciali, anche perché ci somiglia più di quanto vogliamo ammettere (entusiasmo e incoerenza, affabilità e inaffidabilità, difficoltà a distinguere tra pubblico e privato). Ma le lenti italiane non vengono esportate: gli stranieri guardano gli affari nostri con occhi loro», ha scritto Severgnini. [3] Romano (nel 2008): «Credo che abbiano giudicato l’Italia in questi anni osservandola semplicemente attraverso le lenti delle tradizioni politiche e civili dei loro Paesi. Non è necessario frequentare i salotti progressisti di Roma, per constatare che il conflitto d’interessi di Berlusconi è una clamorosa anomalia del panorama politico europeo. Non è ”europeo” essere al tempo stesso Primo ministro e proprietario di un impero della comunicazione. E non è ”europeo”, per un leader così frequentemente alle prese con la giustizia, fare eleggere in Parlamento i propri avvocati». [5]
Va da sé che il giudizio dei giornali stranieri sul Cavaliere ricade su chi lo ha messo in sella. Antonio Gala su ”El Mundo”: «L’Italia, per poco che stimi la politica, dovrebbe comportarsi più degnamente». [1] Secondo ”The Guardian” il problema non è Berlusconi ma «chi lo ha eletto la prima, la seconda e la terza volta, e oggi, dopo la sequenza di scandali che lo hanno sommerso, gli sottrae solo sei punti di consenso, lasciandogli comunque un solido 49%». Ida Dominijanni (in gran parte d’accordo col Guardian): «L’analisi salta molti passaggi. Non indugia né sulla sconfitta né sullo stato dell’opposizione. Non si interroga sulle modalità di costruzione del consenso mediatico berlusconiano, né sugli ingredienti della sua egemonia culturale. Liquida con troppa disinvoltura l’ondata populista che travolge l’intera Europa, facendo sconti troppo frettolosi ai francesi e non solo a loro. E cade, all’inglese, nella trappola di un giudizio antropologico sommario sugli ”italiani”». [6] Francesco Cossiga: «Si deve tener presente che gli inglesi, dagli operai ai lord, sono tutti snob». [7]
«Perché date tanto peso a quello che scriviamo? Non l’ho mai capito. Negli Stati Uniti un editoriale uscito su un giornale straniero non provocherebbe mai tutte queste reazioni», ha commentato Rachel Donadio, corrispondente del New York Times da Roma. Un’autorevole fonte dello staff vicino al presidente Berlusconi. «Un giornale italiano scrive una cosa sbagliata, tipo che Letta non accetta più gli inviti a cena di Berlusconi. Uno straniero la copia pari pari, e il giorno dopo un giornale italiano la riprende tramite il corrispondente, come se fosse uno scoop nuovo. Ma stiamo scherzando?». E poi: «Alcuni giornali del gruppo Murdoch, come il Times e il Sunday Times, stanno conducendo una campagna. Se lo fanno per interessi economici e politici non lo so, però è evidente». [8] Marco Fortis: «Londra e Madrid hanno una bella montagna di nuovo debito pubblico da collocare sui mercati finanziari internazionali e l’immagine di una Italia debole farebbe certo loro gioco». [9]
Dopo aver ricordato che l’Italia è 76ª nell’indice della Heritage Foundation sulla libertà economica e 55ª nell’indice di Transparency International sulla corruzione, il Guardian si è spinto a suggerire che il nostro Paese andrebbe sostituito nel G-8 dalla Spagna. [10] Fortis: «Il pulpito da cui viene la predica all’Italia, ormai è una consuetudine, è sempre lo stesso: giornali di Paesi che con questa crisi globale (di cui portano la grave responsabilità) hanno distrutto ricchezza fuori e dentro i loro confini dopo una corsa forsennata di debiti, speculazioni finanziarie ed immobiliari che per qualche anno hanno loro consentito di vantare tassi di crescita del Pil apparentemente brillanti se rapportati alla dinamica più equilibrata e poco attraente delle nazioni del nucleo storico dell’Europa come Germania, Italia e Francia. Dopo essere piombati in una crisi strutturale gravissima inglesi e spagnoli ora ci danno lezioni su tutto, da come gestire il G-8 a come uscire dalla recessione». [9]
«L’organizzazione del vertice è stata superba» (Ban Ki-moon), «Splendido lavoro, straordinaria leadership» (Barack Obama). [11] Nonostante i favorevoli commenti ufficiali, la stampa internazionale non ha mollato la presa neanche dopo il successo organizzativo del G8 dell’Aquila. Le Monde: «Berlusconi ha condotto uno dopo l’altro Merkel, Obama e Medvedev fra le rovine per un quarto d’ora compassionevole. Il G8 era stato trasferito dalla Sardegna all’Abruzzo per commuovere. Loro si sono mostrati commossi. Come in altri tempi faceva visitare gli ori della sua villa in Sardegna ai colleghi capi di stato, Berlusconi ha guidato questo Telethon planetario, trovando l’occasione di posare solo con gli ospiti più prestigiosi». [12] Enrico Franceschini: «Il Guardian scrive che Berlusconi ha organizzato ”un summit da playboy, a base di commedia, caos ed emozioni”, mentre il New York Times osserva che in fin dei conti Berlusconi è il premier di un paese che è ”imbattibile nel risolvere le situazioni all’ultimo minuto”». [13]
Sull’immagine italiana all’estero influiscono anche iniziative come quella di Antonio Di Pietro, che in contemporanea col G8 ha acquistato un’intera pagina di pubblicità sull’’International Herald Tribune”. Mauro Favale: «Quattro paragrafi per raccontare le vicende italiane degli ultimi mesi: dal Lodo Alfano ”senza il quale Berlusconi potrebbe essere condannato come corruttore di David Mills”, alla cena del premier con i giudici della Consulta Mazzella e Napolitano pochi mesi prima che la Corte si pronunci sulla costituzionalità del Lodo. Per questo, conclude di Pietro, ”l’Italia rischia di trasformarsi da democrazia a dittatura di fatto”». Mimmo De Lorenzo, titolare dell’agenzia che segue la campagna per la rielezione del segretario del Pd Dario Franceschini: «Di Pietro sembra un oppositore clandestino. Se vedessimo il leader socialista francese in un annuncio analogo, cosa penseremmo? Sarebbe stato meglio non scrivere ”Appello alla comunità internazionale”, non l’hanno fatto nemmeno gli studenti di Teheran». [14]