lettera a Roberto Gervaso, Il Messaggero 17/05/2009, 17 maggio 2009
Caro Roberto (posso usare questo tono confidenziale, anche se un abisso anagrafico ci separa?), sono un giovane di trent’anni che ha avuto un grande amore e tanti, chiamiamoli così, amorazzi, flirt che duravano poche settimane o pochi mesi
Caro Roberto (posso usare questo tono confidenziale, anche se un abisso anagrafico ci separa?), sono un giovane di trent’anni che ha avuto un grande amore e tanti, chiamiamoli così, amorazzi, flirt che duravano poche settimane o pochi mesi. Alla perdita del grande amore non riesco a rassegnarmi, forse perché la mia lei mi ha mollato per un altro la vigilia di Natale. Penso sempre a Gloria, questo il suo nome, la notte la sogno, e se lei è in compagnia del suo nuovo partner, il sogno diventa un incubo. Lavoro male, mangio poco, fumo come un turco e la sera, al ristorante con gli amici e le amiche, che cercano di consolarmi, bevo un bicchiere in più. Cerco in tutti i modi di distrarmi, andando in palestra, giocando a calcetto e lavorando come un mulo, ma mi è impossibile non pensare a Gloria. L’idea che si sia dimenticata di me e che viva per un altro mi fa impazzire. Non sono ancora del tutto impazzito, ma temo che uscirò presto di senno. Mi aiuta, se può, a farmi ritrovare la ragione? Scusi se mi firmo solo con il nome, ma la mia ex legge ”Il Messaggero” e, se leggesse questo mio sfogo, farei la figura dello sfigato che non si rassegna alla propria sorte. Franco - Roma Caro amico, raccolgo volentieri il suo S.O.S. Un S.O.S. che lancia a me, e che io volentieri raccolgo, sperando di poterla aiutare. più facile consolare chi ha perso una guerra o un patrimonio che chi ha perso il proprio lui o la propria lei. Non è un’impresa impossibile (non la tenterei), ma è un’impresa quasi disperata. Lei è ancora ferito e prima che la piaga dell’abbandono e della delusione si cicatrizzi ci vuole tempo, che è il migliore dei medici. Non posso impedirle di soffrire in questo momento, ma le assicuro (parlo per esperienza) che fra qualche tempo, diciamo qualche mese, del suo grande amore perderà il ricordo. Capitò anche a me, molti anni fa con Elsa, una bellissima ragazza triestina che aveva una decina di anni in meno di me (io ne avevo trenta). Fu un colpo di fulmine reciproco. Purtroppo, lei aveva un lui, cui niente più la legava, se non l’abitudine. Non aveva il coraggio di piantarlo, ma a me disse che si erano lasciati. Vivevamo in due città diverse. Lei, come le ho detto, a Trieste, io a Roma (ero allora inviato speciale del ”Corriere della Sera”). Stavamo lontano, ma ci vedevamo spesso: eroici week-end durante i quali incrociavamo per notti intere le armi con Venere. Un giorno, un maledetto giorno, complice una telefonata, mi accorsi che lei non aveva lasciato il fidanzato, anche se non ne era innamorata. Può anche darsi, ma questa è una presunzione, che non si fidasse di me. E sbagliava perché io per lei la testa l’avevo perduta davvero. Quando mi accorsi che faceva il doppio gioco, alimentato da bugie, che solo al momento della rottura, smascherai, le feci una gran scenata davanti al caffé Doney, lei scoppio in lacrime, negò tutto, ma io, di tutto, o di quanto mi bastava per comportarmi in quel modo, avevo le inoppugnabili prove. Tornai a casa sconvolto e indignato: non l’avrei mai più rivista; se mi avesse telefonato, avrei abbassato la cornetta. Niente, tutto finito, storia chiusa. Allo sdegno seguì la disperazione, l’angoscia di non rivedere una donna di cui, a torto, pensavo di non poter fare a meno. Mi sentivo anche gabbato. Come avevo per tanto tempo creduto alle sue menzogne? Ero così sciocco o così innamorato? Gli amici, e soprattutto le amiche, cercavano di consolarmi e queste talvolta ci riuscirono, se non a consolarmi, a farmi dimenticare, fra le loro braccia, quelle lunghe, morbide, sempre abbronzate di Elsa. Poi, ripiombavo nello sconforto. Ero già una firma importante di un grande giornale, avevo scritto la ”Storia d’Italia” con il mio maestro Montanelli, ma tutto questo non mi rendeva più felice. Pensi che non potevo passare nelle strade e attraversare le piazze dove ero passato e che avevo attraversato con lei. Una via in particolare, vicino al Pantheon, diventò per me off limits: vi andavamo spesso a mangiare la pizza. Avrei anche voluto cambiare casa, sebbene la mansarda in via dell’Anima fosse il più romantico dei covi. La sera stessa della rottura, prima di andare a letto (tardissimo, e non chiusi occhio) raccolsi tutte le fotografie che avevamo fatto insieme in giro per il mondo, e i due ritratti con dediche appassionate che lei mi aveva regalato, accesi il caminetto e li bruciai. Avrei bruciato anche lei, come una strega medievale, se mi fosse capitata fra le mani, né avrei risparmiato lui, che non sapeva niente e che non avrebbe mai capito, come non capii io, che Elsa teneva il piede, e non solo il piede, in due staffe. Per quasi un anno vissi malissimo, poi, una sera, conobbi Lairana, a casa di amici, bellissima anche lei, una grande chioma fulva, gambe da mozzare il fiato, sexy da resuscitare non uno, ma dieci Lazzari. Altro colpo di fulmine destinato a durare un paio d’anni. Poi, piano piano, il sogno svanì. Ci lasciammo, ma restammo buoni amici. Rifletta su quello che le ho raccontato e ne faccia tesoro. Panta rei, come dicevano i greci, tutto passa.