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 2009  giugno 08 Lunedì calendario

SE KAKA’ SE NE VA SMETTO DI TIFARE PER IL MILAN A MI ABBONO AL CHELSEA


Un giorno trovai il portafogli di mio nonno. C’erano due foto ingiallite. Padre Pio e Gianni Rivera. Gli chiesi chi fossero. ”Uno è un popolare frate pugliese, l’altro fa miracoli”». Diego Abatantuono. Cinquantaquattro anni da pochi giorni. Pallonate, espressi marocchini, tournée, mediterranei in cui perdersi. Milanese d’adozione con padre calzolaio di Vieste e madre comasca, guardarobiera al Derby. Umorismo fulminante: «Da piccolo sognavo di fare il regista. Poi ho rinunciato, è quello che la mattina si alza per primo». Adolescenza avventurosa, gavetta, cabaret: «Il primo ruolo al cinema venne per caso. Mi presentai sul set diunpoliziottesco emi chiesero soltanto se guidassi. Avevo vent’anni e il volante nonsapevo neanche cosa fosse. Volontariamente, perché a teatro, nella mia compagnia facevo il tecnico e se mi fossi patentato, la retrocessione ad autista, con l’addio a bevute e notti allegre, sarebbe stata automatica. Però mentii. Dieci minutidopo battevano il ciak. Iniziò così, con una bugia». Sessanta titoli, molti memorabili. Oscar e sperimentalismo. Cinema popolare e incassi, nessuna paura di ”sporcarsi”. Risi, Avati, Salvatores, Calopresti e Vanzina, la fiction, il teatro, la pubblicità. Figli e traslochi, tra una partita del Milan e l’altra. «Al Giambellino, dove vivevo da bambino, era come stare in campagna. Giocavo a pallone senza sosta.AlbumPanini, discussioni, le ginocchia sempre sbucciate. A mio padre del calcio non importava nulla, ero l’unico con quella passione. A S. Siro, andai per la prima volta di nascosto. Era notte, scavalcai la recinzione. Luce abbagliante. Le voci, un coro. Magia. Il giorno del mio diciottesimo compleanno partii per Verona con un amico. Doveva essere unapura formalità. Festa garantita per il decimo scudetto e palloncini con la stella. Invece il 20 maggio 1973, il Milan perse 5-3, consegnando quella domenica ”fatale” alla storia. Noi camminavamo per Verona comeautomimafu proprio quell’iniziazione a farmi ammalare definitivamente. Quando sono su un set, africano, messicano, greco, sono ossessionato dalla ”Gazzetta” e faccio follie per ricevere un dvd». Rotola sempre una sfera, dalle sue parti. «Se penso al calcio, mi vengono in mente le amicizie di una vita. Faletti, Cochi e Renato, BeppeViola chemi portava clandestinamente in moviola per osservare tutto quello che la Rai non trasmetteva. Mio zio era proprietario del Derby (storico locale milanese e indimenticabile palestra attoriale n.d.a.) e ad un certo punto, decise di rendere quel luogo di passaggio per giovani talenti, un teatro stabile. Una scommessa che insieme a pochi altri mi caricai sulle spalle. Ci affidarono apertura e chiusura. La gente rideva.Unsuccesso. Viola e Jannacci apprezzarono e ci scritturarono in blocco per uno spettacolo». Nei suoi film si gioca in campi improvvisati, tra soldati dimenticati e dune sabbiose. «Il pallone è un linguaggio universale, arriva ovunque. In Marocco, con Salvatores, ci fermammo nell’ultimo avamposto desertico prima del nulla. Case basse, silenzio, vento e desolazione.Unluogo magnifico. Estremo. Nel gruppo, tra Bentivoglio, Cederna e Gabriele, una schiacciante predominanza interista. Proprio quella sera l’Inter giocava con il Bayern Monaco e incredibilmente, in quell’unico alberghetto ai confini del mondo, trasmettevano la partita. Loro persero contro ogni aspettativa e conUgoConti, l’altro milanista della truppa, girammo in macchina tutta la notte improvvisando un carosello con trombe e bandiere. Pensavano fossimo impazziti». Dà l’impressione di essersi divertito. «Ho fatto il mestiere che sognavo ma non sono ossessionato dal lavoro. L’eroe vero è chi sale su un’impalcatura mentre magari l’amico d’infanzia ha scelto di rubare una macchina. Quando non sono sul set mi sento bene, anche se per vivere, devo impegnarmi. Non si può diventare ricchi in una generazione. Forse in due ma solo se si è molto avari e si rinuncia a pagare le tasse, oppure, come fanno in molti, piazzando la residenza fiscale a Montecarlo. Pare sia alla moda». Gassmann sosteneva che solo tra i suoi lineamenti, fosse possibile riconoscere l’eclettismodei più grandi. Prevedevaper leiunacarriera eterna. «Vittorio era meraviglioso ma non poteva immaginare in quale direzione sarebbe andato il mondo. A cinquant’anni, lui, Sordi, Mastroianni, Manfredi e Volontè erano nel pieno della loro attività. Si facevano due o tre prodotti giovanilistici alla ”Poveri ma Belli” ma il resto era semplicemente cinema. Oggi è cambiato tutto. I giovani sono diventati i fruitori di un unico sottogenere indirizzato esclusivamente a loro. La qualità è un parametro da sottomettere all’audience e alla vendibilità. Gli attori arrivano dai reality e in sala si entra sempre meno. Un tempo, ci andavo ogni giorno. Usciti dal buio, iniziava il dibattito. C’era fermento, attenzione, interesse. La verità è che ci ha fregato l’antenna parabolica. Tutti a casa davanti alle televisioni. A cominciare da me». E sacchi di sabbia davanti alla finestra, come in quella canzone di Dalla. «Anche la politica, che pure mi coinvolgeva, ora mi trascina molto meno. Mi sembra avviluppata in una spirale in cui non personalizzare lo scontro è diventato impossibile. Allora mi eccito su battaglie concrete che solo il cinismo spingerebbe a nonconsiderare. Aspetto ancora un sindaco, un amministratore, un maledetto messo comunale che si alzi e dica: ”Da domani, senza auto elettrica, tutti a piedi”. Invece di costruire palazzi marci e cementificare, sarebbe bello che ci preoccupassimo della qualità dell’aria. Non rimane poi molto tempo». Quella intorno al Milan, non è buona. «La questione è complicata. Presumevo che Kakà sarebbe andato via fin da Gennaio ma non ho mai creduto che avrebbe accettato di giocare nel Manchester City, il Lecce d’Inghilterra. I soldi, quando guadagni nove milioni di euro all’anno, rivestono un ruolo relativo. Berlusconi è stato un grande presidente. Dopo l’avventuroso Giussy Farina, con lui abbiamo vinto ovunque. Però la vendita di Kakà e la rinuncia ad Ancelotti creano un problema. Nonè detto che il prodotto ne guadagni. Le belle scenografie costano, come tante altre cose. Ma, anche nel calcio, sono funzionali». Teocoli straccerà la tesserà, i tifosi protestano. «Holetto. difficile essere contenti. Provo a scherzarci su. Se va via Kakà, non tifo più per il Milan. Se vendono Pato, passo all’Inter. Se parte Pirlo, migroa Londra e miabbono al Chelsea, dove i prezzi non sono folli, si gioca di sera, fa fresco, non devi pregare per un bicchiere d’acqua e non ci sono centinaia di inquietanti assatanati che urlano fuori dall’arena». Alternative? «Invito gli amici, accendo la playstation, ingrasso e per ripicca scelgo il Barcellona. Al braccio destro ho un tutore. Il primo gomito del tennista per meriti da joystick. Una medaglia da divano. Sono un sedentario. Un voluttuoso. Viaggio per poi tornare e chiudermi tra quattro mura, coltivare le piante in terrazzo, stare con mia moglie Giulia, con i figli e con la famiglia allargata composta da tutti quelli che mi vogliono bene. D’altra parte non puoi ribellarti al destino, anche se il culo, spesso, gioca una sua parte».


Dal Derby ai film, una carriera di imprese «eccezzziunali»
Lui dice che tra le varie epoche,esiste solo una differenza d’età. E non rinnega nulla, soprattutto. Gli inizi al Derby, l’invenzione di personaggi stampati nella memoria, gli Attila e le imprese «eccezzziunali» (dal film ”Eccezzziunale... veramente” record d’incassi nel 1982), che lo hanno spinto persino a un remake. Dopo il registro comico, Pupi Avati disvela anche quello drammatico. il 1986 e il regista bolognese chiama Diego Abatantuono per «Regalo di natale». l’inizio di un ventennio in cui le prove d’autore si alterneranno ai viaggi intrapresi con gli amici di un tempo. Salvatores su tutti. Con l’artista, il ragazzo che all’inizio degli 80 coniò un linguaggio poi imitato, lo stesso che in Piazza Velasquez, a Milano, divideva il condominio con Rivera: «Ma quando lo incontravo, per timidezza, rimanevo rigido », compare in cinque film. Sono successi diventati classici. Da ”Marrakesh Express” a ”Mediterraneo”, da ”Amnèsia” a ”Io non ho paura”. E Diego in mezzo, allargandosi e stringendosi, affrontando viaggi massacranti e metamorfosi, interpretando buoni, cattivi e sognatori. Il calcio per questo milanista, freddato dalla partenza di Kakà, è l’Africa da cercare in giardino, l’infanzia, la chimera. Sessanta filmein valigia, un pallone. Per giocare, c’è sempre tempo.