Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  giugno 11 Giovedì calendario

SOWETO, LA BARACCOPOLI CON LO STADIO DA 2 MILIARDI


Pioviggina e la strada in terra che scende da una delle colline minerarie dove si abbarbica la bidonville intitolata a Ellias Motsoaledi comincia a trasformarsi in fango. Le baracche di lamiera e legname di recupero hanno un aspetto ancora più sordido sotto il cielo grigio. «Soweto è una città con 4 milioni e mezzo di abitanti, un decimo del Sud Africa, e c’è del bello, del medio e del brutto», ci aveva avvertito la guida, Wonderboy, che non è un nomignolo ma il modo in cui lo iscrissero davvero all’anagrafe. «Ellias Motsoaledi» è parte del brutto. Cinquantamila abitanti, una baraccopoli come le altre che Mandela aveva promesso di abbattere e che resiste dopo quindici anni di governo del partito africano. «A ogni elezione promettono che arriveranno le case», dice Wonderboy. Dovevano costruirne 10 milioni entro il 2015, mancano sei anni e non si è arrivati a 3. Sopra i tetti di eternit i tralicci convogliano la corrente elettrica per la città ma qui sotto la corrente non c’è. In casa non c’è l’acqua che le donne attingono dall’unica fontanella nel raggio di un chilometro. Non ci sono ovviamente le fogne e ogni latrina nel cortile ha una fossa e serve a quattro o cinque famiglie.
L’apartheid è sparita dalla Costituzione ma non dalla vita del Sud Africa. Si è mantenuta di fatto. La nuova «middle class» nera vive nei villini della Soweto bene, con le strade asfaltate come Vilakazi, l’unica al mondo dove hanno abitato due premi Nobel per la pace: Mandela, quando uscì di prigione, e Desmond Tutu, cinquanta metri più giù. I poverissimi restano nel fango e si stordiscono di droghe caserecce. Basta un’occhiata ai ragazzi in piedi lungo i muri di lamiera. finita la ribellione che fece di questo posto il simbolo della discriminazione razziale: al museo Hector Pietersen espongono lucidissimi reperti della vergogna che il 16 giugno del ’76 sfociò nella rivolta degli studenti, dopo di che il Sud Africa non fu più lo stesso. Hector aveva 13 anni, fu la prima vittima. Una pallottola della polizia afrikaner lo colpì alla testa. A leggere i documenti e a guardare le foto in bianco e nero di quei giorni, o accompagnati nella chiesa della Regina Mundi dove si riunivano gli attivisti, monta la rabbia di scoprire quanto può essere arrogante l’ingiustizia.
Oggi il potere è formalmente dei neri e il nuovo presidente ha promesso mezzo milione di posti di lavoro: in Europa c’è chi si espose di più. Però la disoccupazione nelle «bidonville» è al 60 per cento e da lì si guarda ai simboli del nuovo benessere con rassegnazione. «Dietro la collina lavorano per lo stadio per la finale dei Mondiali - dice Oliseh, che ci scorta tra le baracche -. A Soweto il calcio è tutto». Lui giocava. «Ero un’ala, abbastanza scarsa - ammette -. Non potevo diventare professionista». E cambiarsi la vita come i pochi coetanei che hanno sfondato. Lo stadio dietro la collina esiste in realtà da vent’anni. grigio, sul tipo dell’Allianz Arena di Monaco ma è decisamente più brutto. Come ha detto Sepp Blatter, il capo del calcio mondiale, «è un tempio del nostro sport». Blatter è ruffiano con chi gli assicura i voti ma per la gente di Soweto e in genere del Sud Africa, il «Soccer City» è davvero un simbolo. Fu qui che Mandela riunì il popolo per il primo discorso da uomo libero, fu qui che nel ’96 i sudafricani vinsero la Coppa d’Africa che li illuse di essere la prima forza del Continente.
 lo stadio degli Orlando Pirates, la squadra più vecchia e gloriosa della Nazione. «L’unico club dell’Africa australe ad aver vinto la Champions», racconta Johannes Khomane, terzino destro e capitano dei Pirati a cavallo degli anni Settanta. Khomane allena i ragazzini. «Sono un po’ diversi da noi - dice -, soprattutto quando crescono si sentono dei padreterni» e lo scuote l’idea che i giocatori della Nazionale pretendono 22 mila dollari per la Confederations Cup, cioè vogliono in due settimane quanto prende in vent’anni l’abitante più fortunato di una bidonville. «Il calcio - continua l’ex campione - fu una valvola anche nei periodi bui. Soweto è nera ma con noi giocavano alcuni bianchi: erano gli anni Settanta, durissimi, i miei vicini ringhiavano che non dovevo giocare con i bianchi, rispondevo che non erano ragazzi così malvagi come credevano». I Pirates, allenati quest’anno da Ruud Krol, l’ex libero dell’Olanda e del Napoli, contano (a loro dire) 20 milioni di tifosi. L’altra squadra di Soweto, i Kaizer Chiefs, ne vanta 16 milioni: se le cifre fossero vere, tre sudafricani su quattro avrebbero il cuore puntato qui. Comunque per il derby si ferma il Paese, si consumano le tragedie. Nel 2001, quando si giocava all’Ellis Park di Johannesburg, si presentarono ai cancelli in 120 mila, oltre il doppio della capienza: finì come all’Heysel, nella calca morirono in 43. Dicono che per il Mondiale non ci sarà la ressa. Il Paese ha investito un’enormità per organizzarli e la sola ristrutturazione del «Soccer City» è costata 2 miliardi di dollari per portarlo a 95 mila posti. Ma non tutti ne potranno approfittare. Anche se gli sponsor regaleranno molti biglietti, nelle bidonville di Soweto il Mondiale scivolerà nel racconto di chi lo potrà vedere. «Non avremo i soldi per i biglietti», dice Oliseh. «E neppure la corrente elettrica per accendere la tv». Un’altra apartheid.