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 2009  giugno 11 Giovedì calendario

CON LUI ANDREMO IN PARADISO"


Una vecchia col chador tiene in braccio un bambino, dal nero pece che l’avvolge spunta solo l’ovale paffutello del viso, gli occhi sbilenchi e una barbetta ispida che le trafora il mento. Guarda nella direzione dove si dirigono migliaia di teste ondulanti che riempiono il grande corso tra piazza Engelab a piazza Azari, l’asse che taglia Teheran da Est a Ovest. Posa il bimbo a terra e guardando il cielo grigio urla: «Che il Mahdi protegga Ahmadinejad, l’uomo più coraggioso, il protettore della religione». Un gruppo di ragazzi dal look lumpenproletariat, avvolti nella bandiera tricolore iraniana si gira e grida: «Allahu Akbar», Dio è grande. Il Presidente l’aveva detto sprezzante durante il dibattito con l’ex comandante dei Pasdaran Moshen Rezai: «Andrò a fare un discorso all’Università», proprio il posto dove è meno amato. Così da un paio d’ore la gente col tricolore e i nastrini gialli si è incamminata verso l’ingresso Nord del Politecnico. Una folla da stadio allaga le strade, ingoiando macchine e motociclette che sembrano sprofondare nelle sabbie mobili. Un vecchietto su una Paykan, una copia della Hillman Hunter inglese del tempo dello Shah, fende la marea al rallentatore: è madido, pallido, trema come una foglia. Forse ce la farà a raggiungere piazza Azad, chissà.
All’Università c’è una sorpresa. Il palco di Ahmadinejad, una specie di lunga veranda trainata da un camion Mercedes, è fuori delle mura, davanti alla moschea. Non dentro. Nessuno sa niente. Che non l’abbiano voluto? Mistero. A differenza del comizio dell’altro giorno allo stadio Heydar Nia del candidato dell’opposizione Mousavi, qui manca la musica. Solo slogan e spesso religiosi. «Ya Hussein» - strepitano -, l’invocazione al grande martire sciita. Oppure scandiscono: «Il martirio è il nostro onore». Ironicamente, il motto di Ahmadinejad è quasi uguale al «Yes We Can» di Obama: «Mitavonim Mishavad», noi possiamo, si può. Saranno in 400 mila. Se per Mousavi si erano mobilitati i giovani e la classe media, qui ci sono soprattutto i più poveri. Nei quattro anni di governo il Presidente ha usato generosamente i 250 miliardi di dollari di entrate petrolifere per favorire il suo elettorato tradizionale con una politica assistenziale, anche a costo di far volare l’inflazione, ufficialmente è al 26 per cento ma probabilmente più alta.
Ali Tuhran, 45 anni, impiegato statale, tiene alto il suo santino. Dice: «Vincerà al primo turno perché è un uomo di parola. La crisi? Non è colpa sua, c’è in tutto il mondo». Ashraf, 46 anni, solita faccia che sbuca dal nero aggiunge trasognata: « un uomo del Signore, aiuta i poveri, è coraggioso». Ali, 30 anni, camionista, è qui «perché lui è uno di noi, capisce la gente». Poi dice la battuta che stava covando da un pezzo: «Italiano? Io adoro Italia Uno». Anche qui un berlusconiano... Sotto il palco non si respira dalla calca, un giovane sui trent’anni si accascia. Arriva una barella issata sopra le teste. Lo portano verso un’ambulanza che non potrà mai partire, incastrata tra la folla.
Un boato fa tremare l’asfalto bollente: è arrivato Ahmadinejad. Veste il solito giubbetto beige da poveraccio e una camicia dello stesso colore. «Porta sempre le vecchie scarpe», dice Bita, 32 anni, inchadoratissima, casalinga laureata in Geomorfologia, come parlando di un santo. Nei cartelloni il Presidente è sempre sorridente ma la sua espressione più vera ricorda lo sguardo di un bambino triste. Se la prende subito con gli Stati stranieri che offendono il capo spirituale, cioè l’Ayatollah Khamenei. Ma poi il discorso si fa minaccioso: «Tutti gli altri candidati mi hanno offeso - dice - ma offendere il Capo dello Stato significa offendere la Costituzione. Un atto che ha conseguenze penali».
«Akbar vai in prigione», motteggia la folla riferendosi all’ex Presidente Rafsanjani, considerato l’emblema della corruzione. E ancora: «Ahmadi, ti proteggiamo noi». L’oratore incalza torvo: «Ci ricorderemo di loro quando sarò rieletto». Se il raduno per Mousavi comunicava un potente senso di speranza, magari ingenuo ma elettrizzante, qui il sentimento sotto la superficie sembra la paura. Ahmadinejad è l’ordine che attenua lo smarrimento, la certezza astratta che cura la disperazione, la semplificazione forzata del complicato. un rifugio, non uno slancio verso il futuro. Non c’è un attimo di gioia in questo comizio.
Il nucleare è un suo pezzo forte. «Il mondo cerca di impedirci di avere l’energia nucleare - dice - ma noi la stiamo ottenendo lo stesso». «Il nucleare è un nostro diritto», fanno eco i fedeli. Poi cita il suo rivale scatenando un’ondata di «Mousavi dorughgu», Mousavi bugiardo. La parte centrale del discorso è dedicata alla corruzione. «Certa gente - declama di nuovo minaccioso nel persiano ritmico degli oratori - dopo le elezioni dovrà rispondere di ciò che ha fatto». Si leva un urlo corale: «Morte a chi ruba i soldi del popolo». Una donna con una kefià in testa lancia la sua benedizione: «Che il santo Abolfazl ti protegga». Abolfazl martire era il martire prediletto dal mitico campione di pesi Hossein Reza Zadeh, l’Ercole iraniano che sollevò 263 chili e mezzo in un solo colpo. Portava il suo nome sulla maglietta.
La gente è cotta dal sole quando Ahmadinejad intona la preghiera finale. Ai saluti, un contadino in vestito tradizionale gli porta un fascio di grano che lui come un dio dell’abbondanza offre alla massa in delirio. Sparisce nel retro del palco mentre i suoi intonano «ringraziamo il nostro Presidente». Si comincia a smobilitare. Perché la folla si sciolga ci andranno ancora un paio d’ore di parapiglia. Stanno tornando tutti a casa contenti, convinti che in questo mondo di fatica e dolore, c’è almeno un leader che li protegge.
La maggioranza dei 25 mila ebrei iraniani voterà per Ahmadinejad perchè preferisce stare dalla parte del vincitore. Lo sostiene il quotidiano israeliano «Ynet», citando alcuni esperti, tra cui il portavoce dell’Organizzazione centrale degli immigrati iraniani in Israele, David Mutai, secondo il quale l’attuale presidente iraniano «abbaia ma non morde», mentre il suo principale rivale Mousavi è «imprevedibile» e per questo realmente più pericoloso. «Fin dalla rivoluzione di 30 anni fa - dice Mutai - la comunità ebraica è riuscita a scansare i problemi tenendosi buono l’establishment politico».