Stefano Gulmanelli, ཿNova 11/6/2009;, 11 giugno 2009
TONNI IN PROVETTA - «A
bbiamo replicato una migrazione di 5mila chilometri all’interno di una cisterna di pochi metri di diametro». Miles Wise riassume così la pionieristica strada al tuna farming (allevamento di tonni) battuta da Clean Seas, l’azienda australiana di acquicoltura per cui lavora come biologo marino da tre anni. In ossequio al ciclo imposto da madre natura, il southern bluefin tuna, la specie di tonno endemica della regione australe, dovrebbe arrivare nelle acque calde a sud del Borneo per dare inizio alla deposizione delle uova e alla successiva fertilizzazione.
Clean Seas è invece riuscita a indurre alcuni esemplari di "tonno pinna blu" a iniziare il ciclo riproduttivo all’interno di una vasca, dentro un capannone sulle coste del South Australia. «Vogliono acque temperate e lunghi periodi di luce, oltre a certe condizioni d’aerazione dell’acqua » dice Wise. Solo così nelle femmine di Southern Bluefin scatta la stimolazione a deporre le uova, «tutto ciò ora glielo possiamo fornire noi nelle vasche ad ambiente controllato del centro di ricerca di Arno Bay (sulla Eyre Peninsula, 500 chilometri da Adelaide, ndr.) ».
I giapponesi – responsabili di un terzo del consumo mondiale di tonno sotto forma di sushi e sashimi – già da anni raccolgono le uova deposte in apposite gabbie offshore dalla variante boreale di questa specie ittica, il northern bluefin tuna. «Così però il processo resta in balia degli eventi ambientali e della loro imprevedibilità – sottolinea Wise ”. Nella vasca indoor di Arno Bay invece tutti i parametri sono sotto controllo e possiamo adeguarli secondo necessità. un processo più costoso di quello giapponese ma di gran lunga più efficace per un’attività di acquicoltura ». Una volta deposte e fertilizzate, le uova sono state raccolte e incubate fino alla nascita di avannotti che in un mese hanno raggiunto i 2,5 centimetri di lunghezza. Era questo il passaggio più delicato, che ha tenuto la Clean Seas con il fiato sospeso: «Sapevamo di poterlo fare perché sono già anni che lo facciamo con altre due specie di pesci, il kingfish (la ricciola del Pacifico) e il mulloway (l’ombrina)» dice Morten Deichmann, biologo marino a capo della ricerca ad Arno bay. Ma è stato solo quando a metà aprile 50 milioni di uova si sono schiuse liberando decine di milioni di larve che è arrivata la conferma che anche per il southern bluefin era stato chiuso il ciclo di vita.
« il coronamento di un progetto che nasce sette anni fa – ricorda Hagen Stehr, titolare della Clean Seas, – quando selezionammo esemplari riproduttori, tenendoli sotto osservazione nelle gabbie offshore, facendoli crescere fino a 140/150 chili per poi trasportarli in elicottero nelle vasche del centro di Arno Bay». Nelle quali sono stati fatti " migrare" artificialmente fino a innescare il processo di ovulazione e fertilizzazione che ha portato alla nascita degli avannotti.Per la verità l’iniziativa affonda le radici nei primi anni 90, quando lo stesso Stehr – allora a capo di un’attività di pesca dei tonni – si trovò a mal partito con le quote imposte dal governo australiano. «Esagerammo grossolanamente con la pesca e gli stock si abbassarono al punto che il governo dovette imporre limiti rigidissimi al pescato ». Dando un colpo mortale all’industria della pesca al tonno: «Non ci stavamo dentro con i costi. Iniziammo, primi al mondo, il tuna farming, mettendo in gabbie nelle acque antistanti Arno Bay i tonni catturati per farli crescere e poi venderli».
Nella testa di Stehr si fece rapidamente strada l’idea di provare l’intentato: far riprodurre i tonni in cattività. «Esserci riusciti vuol dire aver messo una pietra miliare nel percorso verso una pesca che dia al mondo il tonno richiesto ma in modo sostenibile» conclude Stehr. Esigenza non più rinviabile, come dimostra il giro di vite recentemente imposto dalla Ue alla pesca del tonno mediterraneo.