Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2009  giugno 11 Giovedì calendario

IERI SERA UN’ALTRA AMAZZONE (MA DE NOANTRI) SOTTO LA TENDA DI GHEDDAFI: AFEF JFEN - (TUTTI INFOJATI PER LE AMAZZONI: MEJO

DELle noemi o DELle zoccolette di Villa Certosa) - IL TORCICOLLO del cerimoniale e la minaccia "Se non mi accoglie Silvio torno a casa"

1 - DAGO-REPORT
Ieri sera, intorno alle 23 e qualcosa, il mitologico Gheddafi ha raccolto intorno a sé le sue pimpantissime amazzoni (altro che le noemi disperate di Casoria o le aspiranti zoccolette di Villa Certosa, qui siamo dalle parti di Tarantino e "Kill Bill") e ha raggiunto l’accampamento di tende in Villa Pamphilj. Dove l’aspettava nientemeno un’altra "amazzone" ma de noantri, la mitologica Afef.

La consorte di Marco Tronchetti Dovera era raggiante insieme ai due fratelli (ne ha a disposizione ben cinque), e cioè Anwar e Khaled Jfen. Ovviamente sull’incontro by night massimo riserbo da parte di Afef (il "colonnello" non ti strappa i capelli, ti taglia la lingua). Però tutto nasce da un’antica amicizia familiare: il babbo dell’Afeffata negli anni ’86-87 ricopriva la carica di ambasciatore tunisino in Libia.

E non dimentichiamo poi che Tronchetti fa parte del Cda del maggior fondo sovrano libico, stracarico di soldi grazie alla politica di embargo voluta per decenni dagli Stati Uniti, che non ha permesso a Gheddafi di investire i proventi del petrolio-gas-metano all’estero.


afef jnifen
2 - I pasticci del cerimoniale e la minaccia "Se non mi accoglie Silvio torno a casa"...
Claudio Tito per "la Repubblica"

Stava rischiando di far saltare tutto. Anni di trattative, accordi per il rientro degli immigrati clandestini, intese di carattere finanziario ed economico. E tutto per colpa di un "improvviso" torcicollo. Quello di Silvio Berlusconi. La visita del leader libico Gheddafi, insomma, ha preso il via ieri mattina a Ciampino con un brivido. Un tremore che attraversato la schiena del ministro degli Esteri, Franco Frattini, e anche quella del presidente del consiglio. Un allarme che per un´ora ha messo a soqquadro gli uffici di Palazzo Chigi e del Quirinale. Il motivo?

Lo strappo che il Cavaliere stava per provocare al cerimoniale. Il premier italiano, infatti, in extremis aveva deciso di non accogliere personalmente il Colonnello al suo arrivo all´aeroporto militare di Ciampino. Del resto, è stata la giustificazione fornita a Berlusconi dall´ufficio diplomatico di Palazzo Chigi, in genere il cerimoniale non prevede che il capo del governo vada sulla pista d´atterraggio a salutare l´ospite. Ci deve pensare un ministro. In questo caso il titolare della Farnesina. Più che al torcicollo, il capo del governo non voleva piegarsi ad un protocollo tanto "sbilanciato".

Peccato, però, che ogni passo della visita fosse stato stabilito da tempo tra i diplomatici di Roma e quelli di Tripoli. Compresa la presenza del presidente del consiglio nello scalo militare. Una decisione che i libici hanno immediatamente ricordato. Anzi, l´hanno reclamata e imposta. Minacciando di mettere a repentaglio l´intera visita. Insomma Gheddafi era pronto a far virare il suo aereo e a farlo tornare indietro.

Un pericolo che ha fatto scattare l´allarme. A Via del Plebiscito i contatti si sono improvvisamente moltiplicati. Il Cavaliere, in effetti, già dall´altro ieri aveva fatto notare al ministero degli esteri di considerare una «forzatura» quel tipo di cerimoniale. Eccessivo l´abbraccio nella sala del 31.mo stormo dell´Aeronautica. Forse il Cavaliere ha ancora in mente l´incontro di qualche anno fa a Tripoli che si svolse in una sala riempita di vecchie e cruente foto del periodo coloniale.

GHEDDAFI E AMAZZONEMa non c´è stato niente da fare. Il Colonnello era pronto a tornare in Libia. Impuntature, del resto, non nuove con i leader dei Paesi arabi. Nel 1999 l´allora presidente del consiglio Massimo D´Alema dovete accettare lo stesso protocollo - l´accoglienza all´aeroporto - in occasione dell´incontro a Roma con il Re del Marocco. Stavolta, però, tutto si è giocato sul filo di lana. Con l´aereo di Gheddafi già in volo. Per di più impazzava la polemica al Senato sull´intervento in aula previsto per oggi.

Berlusconi allora ha chiamato Frattini e il sottosegretario Letta. Ha provato a capire se il suo «torcicollo» potesse essere sufficiente a giustificare l´assenza. Ma la risposta è stata negativa. Per non compromettere l´arrivo del Colonnello nella Capitale ha quindi accettato l´aut-aut dell´ospite. «Il collo - raccontava Berlusconi nei giorni scorsi - mi fa davvero male. Non sento dolore solo quando cammino».

Così, appena il leader di Tripoli e sceso dalla scaletta dell´aereo, la prima preoccupazione del premier è stata proprio quella di spiegare il suo malessere. E non ha potuto fare altro che sottoporsi agli abbracci e alle strette di mano di rito. Del resto, Roma non è in condizione, in questa fase, di compromettere i rapporti con il paese nordafricano. La politica dei respingimenti si basa proprio sugli accordi con la Libia. Si fonda sulla disponibilità delle autorità libiche a farsi carico dei clandestini rifiutati dall´Italia. Non solo.

Negli ultimi anni, la presenza dei finanziamenti libici nell´economia nostrana è andata via via crescendo. Basti pensare alla presenza sostanziosa in Unicredit del Lybian Investment Authority, il fondo sovrano di Gheddafi. Oppure alla disponibilità dello stesso fondo e di altri soggetti a entrare nei grandi gruppi italiani come Eni e Enel. Non a caso Mediobanca è diventata una sorta di "guida" per tutti gli investimenti libici in Italia. Questa volta allora, difficilmente Berlusconi si lascerà scappare la battuta fatta dopo l´ultimo incontro in tenda nel deserto: «Quanto è invecchiato Muammar...».

2 - Dopo trent’anni, via il divieto italiano al «Leone del deserto»
Antonio Ferrari per il "Corriere della Sera" - La memoria è spesso dolorosa, ma gli italiani sono maestri nell’esercizio dell’oblio: delle pagine nobili ma «politicamente imbarazzanti», come l’eroismo del console fascista Guelfo Zamboni, che salvò dalla deportazione tutti gli ebrei italiani di Salonicco; e delle pagine vergognose, legate al passato coloniale. Come accadde in Libia con la feroce repressione del generale Graziani, inviato da Mussolini per stroncare la resistenza di tremila guerriglieri senussi, guidati dall’eroe beduino Omar Mukhtar.

SILVIO E GHE Gheddafi è arrivato a Roma con la sua foto appuntata sulla divisa. Mukhtar fu impiccato da prigioniero di guerra. All’inizio degli anni 80 Gheddafi decise di finanziare un film colossal su Mukhtar, «Il leone del deserto», con il meglio dello star system di allora: Anthony Quinn, Irene Papas, Rod Steiger, Oliver Reed, Raf Vallone e Gastone Moschin. Denis Mack Smith lo definì un documento unico sulle atrocità coloniali.

In Italia il film è stato vietato per quasi 30 anni. Nessun distributore lo ha acquistato, e quando fu proiettato in una sala di Trento intervenne la Digos con l’ordine di sequestro voluto da Giulio Andreotti per «vilipendio delle forze armate italiane». Tutti i tentativi di riproporlo (Craxi l’aveva promesso a Gheddafi) sono falliti. Fino a oggi (Sky lo propone questa sera alle 21 su Cinema Classics). Il colonnello, sul divieto del film, ha ragione. Anche se vi fece inserire una bugia, distinguendo il ruolo di Mukhtar dalla Confraternita islamica dei senussi, di cui re Idris era la bandiera. Voleva che diventasse un prode cavaliere solitario, per potersene proclamare erede.

[11-06-2009]