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 2009  giugno 10 Mercoledì calendario

NON SI VIVE DI SOLO PIL


Ben prima che la crisi economica facesse riscoprire ai grandi governi mondiali le virtù della regolamentazione, Amartya Sen, premio Nobel per l’Economia nel 1998, faceva parte di quegli economisti che difendevano il ruolo dello Stato contro la moda liberista.
La crisi economica è l’occasione per rivedere i nostri modelli di sviluppo?
«Offre certamente l’opportunità di farlo. Spero proprio che non si torni al ”business as usual” una volta che il peggio sarà passato. La crisi economica ha prodotto un grave malessere politico, soprattutto negli Stati Uniti. Per decenni le regole erano state demolite da un’amministrazione dopo l’altra, da Reagan a Bush. Certo, il successo dell’economia liberale è sempre dipeso dal dinamismo del mercato, ma anche dai meccanismi di regolazione e di controllo, per evitare che la speculazione e la ricerca del profitto portassero a correre troppi rischi».
 solo un problema di regolamentazione, o bisogna ripensare in senso più ampio le nozioni di progresso e di benessere?
«Sì, bisogna ripensarle. Benessere e regolamentazione sono questioni collegate. Se si crede che il mercato non abbia bisogno di controllo, perché la gente farà automaticamente le scelte giuste, non ci si pone neppure il problema. Se invece ci si preoccupa del benessere e della libertà, bisogna organizzare l’economia in modo tale che queste due cose siano realmente possibili. Allora le domande sono: quali regolamentazioni vogliamo? Fino a quale punto? Ecco le questioni importanti che devono essere discusse collettivamente».
Bisogna elaborare altri indicatori della crescita economica, a parte il prodotto interno lordo?
« assolutamente necessario. L’indicatore del Pil è molto limitato. Utilizzato da solo, è un disastro. Gli indici della produzione o del commercio non dicono granché sulla libertà e sul benessere, che dipendono dall’organizzazione della società. Né l’economia di mercato né la società sono processi che si autoregolano. Hanno bisogno dell’intervento razionale dell’essere umano. La democrazia è fatta per questo: per discutere del mondo che vogliamo, ivi compresi i termini di regolazione dei sistemi della sanità, dell’istruzione, delle tutele contro la disoccupazione... Il ruolo degli indicatori è di aiutare a portare il dibattito su questi temi nell’arena pubblica. necessario per le decisioni democratiche».
L’indice di sviluppo umano Idh può essere uno dei nuovi indicatori?
«L’Idh è stato concepito per i Paesi in via di sviluppo. Permette raffronti fra la Cina, l’India, Cuba..., ma dà anche risultati interessanti riguardo agli Stati Uniti, e in genere per quei Paesi che non hanno assicurazione sanitaria universale e che sono contrassegnati da grandi disuguaglianze sociali. Ma abbiamo bisogno anche di altri indicatori per l’Europa e l’America del Nord, pur sapendo che non saranno mai indicatori perfetti».
Quando lei ha concepito l’Idh, la crisi ambientale non era ancora stata percepita in tutta la sua gravità. Tenendo conto di questo nuovo aspetto, lei modificherebbe la sua visione della lotta alla povertà?
«Il declino della qualità dell’ambiente incide sulle nostre vite. Lo fa in modo immediato, nel nostro quotidiano, ma anche riducendo le possibilità di sviluppo a lungo termine. L’impatto del cambiamento climatico è più pesante sulle società dei Paesi più poveri. Prendere ad esempio l’inquinamento urbano: quelli che lo subiscono di più sono coloro che vivono in strada. La maggior parte degli indicatori della povertà o della qualità della vita dipendono anche dalle condizioni ambientali. Ecco perché è importante che le questioni della povertà e della disguaglianza siano tenute in considerazione nei negoziati internazionali sul clima».
In che modo?
«Innanzitutto i Paesi in via di sviluppo devono avere una rappresentanza nei negoziati. L’allargamento dal G8 al G20 può segnare un parziale progresso. Adesso il punto di vista della Cina, dell’India, del Sud Africa e degli altri Paesi emergenti viene preso in considerazione. Ma non è sufficiente dare la parola a questi Paesi che sono maggiormente riusciti a farsi valere nel mondo dell’economia: bisogna accogliere anche le istanze dei più poveri. Nel G20 l’Africa resta troppo trascurata. Una cosa da fare è rafforzare il ruolo dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite. quella la sola istituzione in cui qualunque Paese, a prescindere dal peso economico, si può esprimere su un piano di uguaglianza con ogni altro».
I suoi studi hanno mostrato come la diffusione di istituzioni democratiche abbia sollecitato i governi a combattere il problema della fame in maniera più determinata ed efficace. Questa nozione si potrebbe applicare anche alla crisi alimentare attuale?
«La democrazia permette di evitare la fame, perché la fame è un problema contro il quale è molto facile mobilitare l’opinione pubblica, quando questa si può esprimere liberamente. A partire da quando l’India si è governata democraticamente, cioè dal 1947, non ha più conosciuto la fame nel senso stretto del termine. D’altra parte, la democrazia di per sé non è in grado di evitare la malnutrizione, che è un problema più complesso. Serve un impegno fortissimo dei partiti politici e dei mass media per attirare l’attenzione dell’opinione pubblica su questo problema e sollevare un dibattito pubblico».
La inquieta vedere che la superficie destinata alla coltivazione dei biocarburanti si sta allargando a scapito delle coltivazioni alimentari?
«Sì, mi preoccupa molto osservare che spesso è più profittevole utilizzare i prodotti agricoli per distillare etanolo che per sfamare la gente. Le crisi alimentari non si spiegano più con ragioni malthusiane - non è un problema di nutrire 6 oppure 9 miliardi di persone. Le ragioni della penuria sono più complesse, penso soprattutto agli usi alternativi della terra, ma anche ai cambiamenti del regime alimentare in Cina e in India, dove la domanda di nutrimento per abitante si accresce con l’incremento dei redditi individuali».
Lei denuncia l’approccio coercitivo delle politiche demografiche. Perché?
«Ci sono due modi per vedere l’umanità: come una popolazione inerte, che si contenta di produrre e di consumare per soddisfare dei bisogni; o come un insieme di individui dotati della capacità di ragionare, di libertà d’azione, di valori. I malthusiani appartengono alla prima categoria, e così pensano che per risolvere il problema della sovrappopolazione basti limitare il numero dei figli per famiglia. Diversi Paesi ci hanno provato, ma non hanno avuto molto successo. Il caso della Cina è più complesso di quanto sembri: a mio parere si dà troppo rilievo alla politica del figlio unico, mentre altri programmi a favore dell’istruzione femminile e dell’accesso al lavoro hanno fatto moltissimo per limitare la crescita demografica. Non dimentichiamo che per Malthus alla fine del XVIII secolo un miliardo di esseri umani sarebbe già stato troppo».