Bruno Ventavoli, La stampa 10/06/2009, 10 giugno 2009
BACIATO DALLA SFORTUNA
Era nato malissimo, per essere un semplice gregario. E nemmeno troppo positivo, perché preferiva cantare e ballare, anziché sfacchinare, refrattario ad ogni lavoro. Insomma una di quelle figure che nelle favole pedagogiche era destinata a grama fine, come le cicale di La Fontaine. Ed era pure sgorbio, smilzo rasente l’anoressia, testa tonda e piccola, occhi minuscoli, becco prominente. Ma come tanti brutti anatroccoli, con aria simpatica, ha poi avuto un radioso futuro. Perché Donald Duck-Paperino è diventato il papero più famoso del mondo, simbolo dell’uomo qualunque, frustrato, che lotta contro l’onnipotenza della sfiga. E che muta il suo scacco perenne in trionfo, in ascensore per il mito.
Ieri, ha compiuto 75 anni. Perché è nato il 9 giugno del 1934. Chi l’abbia creato davvero non si sa con precisione. Pare addirittura che la Disney, che lo considerava destinato allo spazio di un cortometraggio, abbia buttato via i fogli originali. Di sicuro, nella sua genesi, ci fu la zampa d’un disegnatore ungherese Ferdinand Horvath, geniale e respingente come un Dracula nell’aspetto, mai capace di ottenere i fasti che avrebbe meritato, come la sua creatura. Il Paperino d’allora, molto diverso da quello che divenne in seguito, comparve prima al cinema, nel cortometraggio «La gallinella saggia». Non faceva granché. Anzi, spiccava simpaticamente come vicepresidente del circolo dei Pigri. Uno che «nessun lavoro lo infastidisce perché nemmeno lui infastidisce il lavoro». Invece il fannullone piacque. Tornò. Finì sulla carta dei fumetti (disegnato da Al Taliaferro). E cambiò molto, soprattutto per mano di Gottfredson, mentore di Topolino.
La vera svolta arrivò con Carl Barks, uno che di paperi se ne intendeva, perché prima di diventare un grande disegnatore Disney aveva allevato polli veri. Fu lui a renderlo un papero dal volto umano, pur lasciandogli la tenuta marinara che gli copriva solo la parte superiore del corpo, tanto il papero era asessuato, e non c’era bisogno di coprirgli le vergogne come si faceva con i braghettoni della Cappella Sistina. Era il tutore single di tre nipotini antipatichelli e saccenti, il deuteragonista del ricchissimo zio Paperone in avventura talvolta banalmente quotidiane, altre volte fantastiche e surreali. Il Paperino italiano ha fatto storia a sé. Parente del modello americano, ma differente, più vitale, più mediterraneo, più fantasioso, grazie ai magnifici autori nostrani - come Guido Martina, Abramo Barosso, Rodolfo Cimino -, gladiatore della quotidianità e protagonista di parodie dei classici della letteratura, dal Manzoni a Hugo, o di eventi d’attualità.
«Zio Paperone è nei guai? Non allarmatevi! Io lo sono da quando sono nato e godo di ottima salute!» ha detto una volta, a sintetizzare la sua filosofia di vita. Perché Paperino è diventato icona di simpatia proprio perché sfortunato nei secoli dei secoli. Con una fidanzata frigida, più preoccupata dalle scarpe che dall’amore (talvolta pure fedifraga), affezionato alla sua macchina scassata, la 313, che non mollerebbe neanche se avesse l’incentivo per la rottamazione, non ha mai imbroccato una sola impresa nella sua papervita. Per qualche tavola, magari, le cose sembrano mettersi per il verso giusto. Ma alla fine, Paperino, perde sempre. Come la maggior parte di noi.
Chi leggeva le sue avventure non poteva non essere preso da certo sconforto, al cospetto dei suoi eterni fallimenti. Certo, si sorrideva, certo, si traeva forza dalla sua capacità di sorridere al cospetto dei rovesci, ma un grumo d’amaro in bocca restava. Era bellissimo, allora, quando un albo settimanale pubblicava a sorpresa un’avventura di Paperinik, in cui l’eterno soccombente diventava un supereroe invincibile, spavaldo, notturnino. Si metteva una mascherina sul becco e nulla lo fermava più. Aveva rifugi segreti, spezzava il cuore delle papere, partoriva invenzioni che cambiavano il corso del destino. Ma poi, alla fine sceglieva di tornare il Paperino di sempre, sopraffatto, jellato, povero in canna.
Non aveva mai un lavoro fisso, per pochi dollari faceva l’uomo di fatica, raffinato maestro di pigrizia, ogni tanto s’inventava persino la professione di «esperto del sonno», e sbarcava il lunario. Credevamo, da bambini, che quell’ingiustizia somma, del destino e della società, fosse solo una finzione dei fumetti. Invece lui era in anticipo sui tempi. Perché poi nel mondo moderno sono arrivati i precari, che s’arrabattono nell’universo interinale come lui. Viveva coperto di debiti. E noi pensavamo, ancora bambini, che quel sistema finanziario strambo, esistesse solo a paperopoli. Invece è arrivata l’avventura inedita dei supbrime. Paperino, a 75 anni, continua a prendere botte. Sempre con la schiena, e le piume, dritti. Sempre allegro e sempre vitale. Nella sua infinita saggezza non s’è però avveduto che il mondo vero è diventato una brutta copia di Paperopoli, dove vincono gli zii paperone, che posseggono «tre ettari cubici di dollari». Ma la cosa buffa è che nella realtà Paperone, oggi, è più amato di Paperino.
«Mi riconosco in Paperino - dice il filosofo Giulio Giorello - nervoso, collerico, pasticcione e sfortunato, un po’ come tutti». Ma attratto anche dal suo anti-tipo, Topolino, «quello innovativo e contestatore delle storie di Walsh e Gottfredson non l’amico di Basettoni e il difensore dell’establishment che è diventato poi».