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 2009  giugno 10 Mercoledì calendario

Ma che brutte banche in Europa - Il pericolo subprime è esploso negli Usa ma oggi sono le banche europee quelle più a rischio

Ma che brutte banche in Europa - Il pericolo subprime è esploso negli Usa ma oggi sono le banche europee quelle più a rischio. Gli istituti americani hanno affrontato la crisi con misure più incisive, sia in termini di interventi statali che di pulizia di bilancio e oggi sono più protette. quanto emerge dall’indagine sulle maggiori banche internazionali nel periodo 1998-2008 effettuata da R&S Mediobanca, che ha analizzato redditività, produttività, costi, solvibilità e dimensioni di 66 istituti (per circa il 70% del totale degli attivi mondiali). A colpire è soprattutto il grado di rischio ancora nella pancia delle banche europee, a due anni dall’inizio della crisi. Nel 2008 la leva è cresciuta significativamente: il rapporto tra passività di bilancio e patrimonio netto tangibile (al netto cioè degli attivi immateriali) è salito da 34,6 a 43,3 volte, ben lontano dal valore di 25 registrato nel 1998. Che cosa significa questo dato? La quota di capitale si è ridotta rispetto al debito e alle altre passività: un fenomeno normale prima del 2007, ma che è proseguito anche nell’ultimo anno, nonostante le Authority abbiano insistito sulla necessità di maggiore patrimonializzazione. Negli Usa la tendenza è opposta: la leva è scesa da 26 a 21 volte. Identiche conclusioni se si guarda al rapporto tra mezzi propri e attivi totali: è sceso in Europa (da 3,4 a 2,8%), mentre è salito negli Usa (dal 7,7 all’8,3%). Le conseguenze non sono di poco conto: gli analisti di Mediobanca rilevano che l’intero patrimonio tangibile degli istituti europei sarebbe spazzato via dalla svalutazione del 12,5% del portafoglio titoli, oppure dal default del 6% dei crediti. Senza considerare che i titoli illiquidi («Classe 3»), quelli che oggi non sono valutabili perché non hanno mercato, sono pari al patrimonio netto tangibile totale: nel caso di Dexia sono pari al 650%, Deutsche Bank è al 398%, Ing al 275%, Ubs al 204%, Credit Suisse al 200%. La debolezza del Vecchio continente è dovuta a una reazione più lenta contro la crisi. Le ricapitalizzazioni Usa sono arrivate a 235 miliardi di dollari (120 dallo Stato): un valore che corrisponde al 32% del patrimonio netto di tutto il settore a fine 2007. Gli aumenti di capitale europei hanno inciso invece soltanto per il 10% (ovvero 115 miliardi di euro). Il deficit è stato in parte compensato dalle garanzie pubbliche concesse in Germania e Regno Unito (oltre che dalle minori tasse per 39 miliardi), ma l’impegno dei governi in termini di equity è stato limitato rispetto ai gruppi americani. Gli Usa sono più avanti anche nella pulizia dei conti: «La politica di regolare svalutazione dei crediti da parte delle banche Usa si riflette in una più contenuta quota di debiti di dubbia esigibilità in bilancio», spiega Mediobanca. Inoltre è differente il grado di copertura dei crediti dubbi (attraverso fondi rettificativi): vicino al 107% negli Usa, attorno al 57% in Europa. «La più prudente politica americana di trattamento dei crediti può costituire un vantaggio nella misura in cui sarà più severa la caduta reale delle attività», aggiungono gli analisti. La leva del debito, osserva R&S, è in grado di prevedere meglio le difficoltà dei singoli istituti: al contrario dei coefficienti di solvibilità, che finora hanno fallito a ripetizione e sono «fuorvianti». Nessun gruppo è mai sceso sotto i minimi regolamentari: Washington Mutual per esempio aveva un ratio del 14% tre mesi prima di fallire. Non è dunque un caso che il tema delle ricapitalizzazioni sia tornato al centro delle attenzioni delle authority. In un’intervista al Wall Street Journal, il membro del direttivo della Bce, Yves Mersch, ha rilevato: «La debolezza del settore finanziario è la principale ragione per cui la Bce prevede una ripresa soltanto graduale». L’Fmi ha detto che «i governi di Eurolandia devono intraprendere ulteriori decisive azioni, soprattutto nel settore finanziario». In questo scenario le banche italiane sono più solide. Il rapporto di leverage di Unicredit è pari a 25,5, mentre per Intesa Sanpaolo è a 19,5 (la media europea, come detto, è di 43,3). I titoli illiquidi costituiscono soltanto l’11% del patrimonio netto tangibile della banca guidata da Corrado Passera (contro la media del 97%). Grazie al modello di attività meno legata alle oscillazioni dei mercati, i due maggiori gruppi italiani hanno effettuato minori svalutazioni e hanno mantenuto una maggiore redditività nel 2008 (al 6,7%, contro valori negativi per i concorrenti). La produttività è cresciuta più del costo del lavoro, ma soprattutto perché l’aumento di quest’ultimo è stato in assoluto il più basso (+2,3% nel decennio). Ora però la recessione peserà sulle sofferenze, come evidenziato anche da Bankitalia e dalle agenzie di rating. Tra i punti di forza del sistema italiano, c’è stato anche il più moderato tasso di crescita: in 10 anni gli attivi totali medi sono aumentati per Intesa e Unicredit del 27%, contro il +145% in Europa e il +118% negli Usa. Proprio negli Stati Uniti è stato registrato il maggiore controvalore delle aggregazioni (541 miliardi): soltanto il 4% della cifra è stato regolato in contanti. Perciò l’avviamento (che con la crisi è a rischio svalutazione) costituisce il 60% del patrimonio totale americano, un valore doppio a quello in Europa (dove il 67% del valore è stato non cash). L’analisi di Mediobanca ha sottolineato anche il maggior peso sui ricavi del margine di interesse, mentre, come prevedibile, è scesa ovunque la quota dei risultati da trading e da commissioni. A livello di roe, nel triennio 2004-2007 le banche cinesi hanno fatto meglio delle rivali, grazie anche ai minori costi di lavoro. Gli analisti hanno infine rilevato che il primo trimestre 2009 ha segnato un ritorno all’utile in Europa (6,1 miliardi, contro la perdita di 11,8 miliardi dell’ultimo trimestre 2008). I primi segnali sono dunque positivi, anche se le incertezze sul settore, soprattutto in tema di patrimonio, non sono ancora svanite.