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 2009  giugno 10 Mercoledì calendario

LA DOPPIA MORTE DI BONGO RISORTO PER SBLOCCARE I CONTI


Quarant’anni al potere: tanti. La prima volta che salì la scalinata dell’Eliseo per la conferma (l’impero non c’era più ma i padroni erano sempre i francesi) alzò lo sguardo verso le nuvole che imbronciavano la faccia di De Gaulle. E poi via via tutti gli altri, Pompidou Giscard Mitterrand Chirac Sarkozy, e lui era sempre lì, nelle belle stanze del Crillon, pagava le campagne elettorali («aiuti finanziari» li chiamava), dava basi militari, appalti, concessioni petrolifere. Un évolué di successo, un prodotto francese, anche se non finito. Era diventato presidente del Gabon quando c’era l’Africa dei dittatori coerografici e l’ha vista diventare il continente dei dittatori astuti. Solo la miseria della gente è sempre la stessa.
Ha avuto tempo perché tutto fosse pronto. Omar Bongo non era di quei presidenti africani che spaternostrano cri cri e amuleti, assumono fattucchiere, che pensano che la morte si può esorcizzare e ritardare. Eppure quando è venuto il Momento, non era pronto. In Africa il presidente è Primo Industriale, Contadino e Banchiere, Grande Diplomatico, Generalissimo, Supremo poliziotto e Arcigiudice, premibottoni assoluto: tutto è suo, tutto dipende da lui. Per questo ha dovuto morire e risorgere e rimorire: aveva la firma su tutti i conti in banca.
Padre padrone
Lasciate perdere le analisi dei politologi, le testimonianze dei viaggiatori, gli annunci dei profeti: l’Africa, il suo presente e purtroppo il suo prossimo destino, sono nella grottesca cronaca della doppia morte di Omar Bongo.
Un affare di famiglia, un problema di eredità da regolare con qualche astuzia per aggirare la tassa di successione; e un milione e mezzo di sudditi miserabili silenziosi spettatori, invitati, quando tutto è finito, a piangere calde lacrime per il padre della patria. «Papà», lo chiamavano così, di un Paese al 123° posto su 177 nella classifica dello sviluppo umano dell’Onu, 56 anni la speranza di vita. In 40 anni non è riuscito a costruire che alcune centinaia di chilometri di strade, ma attingeva al petrolio, al legname, ai giacimenti di manganese e di ferro. Ricchezze del popolo, proprietà dello Stato, ma il presidente incassava, per sè, per la famiglia, per la tribù. Così fanno tutti, dal Ciad alla Angola.
Bongo era un uomo fedele alla Francia. Perché andare negli staterelli finti, popolati da infrequentabili evasori fiscali, narcobanditi, mafiosi? C’era Parigi, banche solide, antiche, affidabili. Ha depositato per 40 anni, puntuale, un cliente adorabile e riverito. Secondo «Trasparence internationale», a Nizza e a Parigi era titolare di una settantina di conti. Ma adorava anche l’immobiliare di lusso: 33 proprietà di cui una dozzina di appartamenti a Parigi. E non certo nelle banlieues degli emigrati gabonesi.
Giudici alle calcagna
Alcune Ong lo hanno denunciato, volevano il blocco dei conti. Gli smanaccioni della giustizia sommaria lo accusavano di «storno di fondi publici, sbiancamento di denaro sporco, abuso di beni sociali e di fiducia». Per fortuna la «France Afrique» funziona ancora. La procura ha bloccato l’inchiesta con innumerevoli cavilli. Parigi veglia, ma il pericolo non era svanito. E per morire senza avere ai tacchi comunicazioni giudiziarie ha dovuto andare in una clinica di Barcellona.
Il cuore di Omar Bongo si è fermato, raccontano, domenica sera: davvero troppo presto. C’erano quei 70 conti da mettere a posto, trasferire, sbiancare, chiudere. In Gabon tutto avviene in famiglia: la figlia, Pascaline, è capo del Gabinetto presidenziale, suo marito Paul Togui, è ministro dell’Economia, il marito precedente è stato ministro del Petrolio e poi degli Esteri, il figlio Ali è alla Difesa. Figli zii e cugini sono alla Tesoreria, dirigono la Banca dello sviluppo, le ferrovie, Gabon Telecom, gli alberghi di lusso. Non si amano, ognuno aspira alla successione. Ma hanno una certezza: sono betekè, tribù minoritaria del nord, e, scomparso Bongo, i Fang (40% della popolazione) rialzeranno la testa. Occorrevano dunque ancora alcune ore. Lunedì, mentre i giornali nel mondo pubblicavano i «coccodrilli» del più antico capo di Stato africano, il primo ministro ha annunciato che Bongo era ancora vivo e cosciente: parola sua. Il tempo di aggiustare i conti, chiudere le frontiere e mobilitare l’esercito. Poi «papà» nel pomeriggio ha potuto, finalmente, morire.
La Shell dice di non aver fatto nulla di male nel Delta del Niger. Ma intanto accetta di pagare 15,5 milioni di dollari perché non si celebri il processo che la coinvolge nella morte dello scrittore ed attivista nigeriano Ken Saro-Wiwa e di altri cinque ambientalisti della tribù Ogoni, giustiziati dal regime militare nel novembre 1995. Tra pochi giorni sarebbe cominciato a New York davanti ad una corte americana il procedimento contro la compagnia, accusata dal figlio di Saro-Wiwa di essere stata collusa con le autorità nigeriane che stroncarono le contestazioni degli Ogoni. La Shell ha sottolineato di «non aver avuto alcuna parte nelle violenze» ma di aver deciso il pagamento come «gesto umanitario» a favore dei parenti delle vittime e di voler cominciare con questo gesto il «processo di riconciliazione» nella zona del Delta, ancora teatro di una guerriglia continua. Il New York Times osserva che la cifra di 15,5 milioni di dollari è «impressionante».