Pippo Ciorra il Manifesto, 9/6/2009, 9 giugno 2009
LE OSPITALI BIBLIOTECHE DEL FUTURO
Per comprendere quanto sia cambiato e stia ancora cambiando negli ultimi decenni il concetto architettonico e urbanistico di biblioteca basta confrontare un’immagine molto familiare, quella dell’austera Biblioteca Nazionale di Castro Pretorio a Roma, con l’ultimo strillo di attualità in fatto di biblioteche pubbliche urbane, il progetto recentissimo del gruppo olandese Mecanoo per la nuova sede della biblioteca di Birmingham. Le differenze sono eclatanti.
Dal concorso romano del 1960, vinto da un gruppo guidato da Carlo Melograni, emerge un’idea di biblioteca che ha ben poco a che fare sia con gli odierni «edifici-piazza» che con la spettacolare agorà immaginata due secoli prima da Boullée per Parigi. I libri e gli spazi di lettura sono infatti custoditi in una specie di fortilizio introverso, ipersorvegliato e circondato da alte mura che ben si inseriscono nel contesto di caserme nel quale è ricavato il lotto per la nuova sede dell’istituzione. Tra il primo controllo al cancello e l’ingresso vero e proprio all’edificio c’è poi un’interminabile «terra di nessuno», guardata a vista, che solo chi ha veramente bisogno di accedere a «quel» libro, periodico, incunabolo rarissimo, troverà il coraggio di attraversare.
Per Birmingham il gruppo olandese segue oggi una strategia opposta. Il progetto propone infatti un hyperbuilding da 213 milioni di euro, interamente trasparente, capace di ospitare fino a diecimila utenti al giorno, permeabile ai percorsi e ai flussi urbani, pieno di negozi, ristoranti, luoghi per spettacoli ed eventi, dove alla maggior parte dei libri/film/riviste (e relativi meccanismi per il prestito e la restituzione) il visitatore può arrivare da solo, senza l’assistenza di un addetto.
Volumi asimmetrici e inquieti
Ancora una volta, come ai tempi remoti di Alessandria o nelle speculazioni visionarie di Boullée, l’architettura si conferma come un ingrediente essenziale dell’identità di una biblioteca: governa il movimento delle persone, rende comprensibile lo spazio, ne determina il tono più o meno monumentale, chiarisce quale deve essere il ruolo dell’istituzione rispetto allo spazio pubblico e alla città in genere.
Viene da chiedersi insomma se le biblioteche possano davvero essere i musei del prossimo decennio, le grandi architetture urbane su cui le città debbono concentrare gli sforzi nella nobile competizione per un cultura diffusa, aperta e accessibile. Le prove a favore di questa visione non mancano: non solo quella specie di madre di tutte le biblioteche di cui abbiamo detto a Birmingham ma anche altri edifici che fanno del luogo di conservazione e consultazione di libri e altri prodotti editoriali il centro di un sistema di spazi e servizi molto più complesso, «piazze» indoor fortemente integrate nella sequenza degli spazi pubblici della città. Luoghi insomma dove le «collezioni» perdono centralità e importanza in favore di altre funzioni, come avviene nei musei contemporanei. Così è per esempio il caso del complesso Tea di Herzog & De Meuron a Tenerife, una specie di piastra urbana bassa ed extra large che contiene una intera parte della città e dove la biblioteca è uno degli elementi più aperti e a contatto con l’esterno, la strada, la vita.
Non sempre però i progetti più interessanti sono quelli più faraonici e glamour. Gli stessi autori del progetto di Birmingham, gli olandesi Mecanoo, sono i progettisti di una delle più belle biblioteche universitarie europee, costruita a Delft a metà degli anni Novanta, basata su un dolce piano inclinato verde e praticabile che favorisce un’integrazione perfetta nel paesaggio. A Londra, se si ha la pazienza di allontanarsi un po’ dal centro, si può vedere la deliziosa Peckam Library realizzata da Alsop nel 1999, un volume asimmetrico e inquieto che riesce comunque a dare una sensazione di enorme apertura e accessibilità rispetto al quartiere. Oppure, andando ancora indietro, troviamo la notissima Carré d’Art di Norman Foster a Nimes, deliziosamente integrata sia nell’area archeologica che nella confusione delle bancarelle del mercato.
Ricchi e poveri, zingari e cardinali
Se continuiamo a scavare nel passato recente non è difficile individuare gli episodi che hanno in qualche modo segnato il passaggio dall’idea di biblioteca come tempio silenzioso e selettivo agli odierni mall del sapere, dell’informazione e della cultura visiva. Prima di tutto il concorso per la «Très Grand Biblioteque» di Parigi, del 1989, importante non solo per il progetto vincitore di Perrault, con la smisurata terrazza urbana affacciata sulla Senna e i quattro giganteschi «volumi aperti» di vetro che per la prima volta trasformavano i depositi in spazi spettacolari e visibili, ma anche per la bellissima proposta di Koolhaas, col suo cubo trasparente e pixelato. Poi l’ambizioso concorso per la ricostruzione in Egitto della mitica Bibliotheca Alexandrina, inaugurata nel 2002 con un progetto non particolarmente convincente ma certamente molto monumentale del gruppo norvegese Snøhetta.
Tra i progetti più recenti ce ne sono alcuni nei quali la metafora biblioteca/piazza o strada è particolarmente esplicita (ed efficace). il caso dell’urbanissima strada coperta della Public Library realizzata a Salt Lake City da Moshe Safdie nei primi anni del decennio: un vero e proprio pezzo di città attraversabile e animato che del vecchio «museo di libri» ha veramente poco. O della Salaborsa di Bologna, dove lo spazio architettonico già c’era, ma dove l’enfasi posta sulla natura di «piazza coperta» fa sì che la biblioteca sia veramente quello spazio iperfrequentato e aperto a tutti, «a disposizione di grandi e piccoli, ricchi e poveri, zingari e cardinali».
Una nuova macchina urbana
Per chi ha passioni architettoniche più intense vanno ricordati due capolavori recenti. Il primo, almeno in ordine di tempo, è la sublime mediateca di Toyo Ito a Sendai, una smisurata vetrina urbana che permette allo sguardo del passante di venire a contatto con ogni singolo spazio interno e quindi con le singole finzioni dell’edificio. La natura e la «trasparenza» della «mediateca» servono anche a corroborare l’idea che forse è la stessa denominazone di biblioteca da mettere ormai in discussione, almeno in alcune specifiche situazioni. L’altro edificio che va assolutamente citato, proprio perché incarna perfettamente quella macchina urbana di cui cerchiamo di tracciare i connotati, è la biblioteca recentemente realizzata a Seattle da Rem Koolhaas. Da un lato una specie di metafora di una pila di libri disordinatamente accatastati, come in un’opera di Kiefer; dall’altro un sistema di spazi urbani messi insieme in modo che nessuno appaia chiuso in se stesso e tutti si sforzino di esaltare il rapporto con lo spazio della città, invitato a «continuare» dentro la biblioteca, ancora una volta aperta a flâneur e perdigiorno tanto quanto a chi cerca incontri interessanti, un posto dove studiare in pace, o un libro introvabile.
Ito e Koolhaas sono importanti soprattutto perché ci ricordano il potere «urbano» della forma, l’urgenza che l’architettura comunichi chiaramente quale vogliamo che sia il ruolo della nostra biblioteca nella città, l’immagine capace di esprimere non solo il desiderio di non disperdere il vecchio patrimonio di sapere (per questo forse andavano bene anche le «vecchie» biblioteche), ma anche l’ansia di construirne ogni giorno uno nuovo, connesso al suo tempo.