Vittorio Da Rold, ཿIl Sole-24 Ore 8/6/2009;, 8 giugno 2009
CICALE E FORMICHE, LE FIABE DEL NORD
Islanda o Norvegia? Cicale o formiche? La crisi economica ha messo a nudo due modi di essere, due fiabe nordiche dal finale opposto, che si sono rivelati agli antipodi negli ultimi decenni della politica economica e che ora vede la rivincita dei tradizionalisti risparmiatori cultori del severo drammaturgo norvegese Henrik Ibsen contro chi ha trasformato il paese in una sorta di hedge fund collettivo seguaci di Alan Greenpsan, della deregulation e della liquidità a basso costo.
Chi, come la Norvegia, negli anni passati ha pensato al futuro ora legge della crisi globale sui giornali mentre va sereno in vacanza nella seconda casa tra i boschi o veleggia tranquillo in barca tra i fiordi.Chi come l’Islanda,invece, ha seguito l’onda lunga dell’«irrazionale esuberanza dei mercati », speculato sui subprime e derivati, ridotto i controlli pubblici sulle banche, trasformando un piccolo paese di pescatori in un abnorme centro finanziario, oggi vede la sua vita peggiorare, i risparmi bruciati, la banche sul lastrico e chiede di entrare con urgenza nella Ue per agganciarsi alla ciambella di salvataggio dell’euro.
Due storie emblematiche di come si è progettato il futuro negli ultimi venti anni da parte di due paesi nordici, simili culturalmente, ma profondamente divisi nella percezione del mercato e delle sue regole.
Anche se i paesi-cicala sono molto di più: basti pensare alla crisi che morde i Baltici con le aste deserte dei bond, al recente salvataggio dell’Ungheria sommersa dai mutui in franchi svizzeri, ai moti di piazza della Grecia, anello debole di Eurolandia, ai sussulti dell’Ucraina e della Russia, ai timori di tenuta della Turchia. L’arco della crisi delle partite correnti in rosso, come la definisce Nouriel Roubini,parte dal Baltico,attraversa l’Europa centro-orientale e finisce sul Bosforo.
La lezione islandese
Secondo il capo missione dell’Fmi, Poul Thomsen,«dopo la privatizzazione delle banche completata nel 2003, le banche islandesi aumentarono i loro attivi dal 100% del pil al 1.000% del Prodotto interno pregiudicando la capacità di controllo delle autorità centrali di operare come prestatore di ultima istanza». Il sistema bancario era troppo grande rispetto all’economia reale basata su pesca e alluminio. Dopo la crisi l’Islanda ha scelto di cambiare l’esecutivo respingendo al mittente quella politica fallimentare da apprendista stregone che ha generato magicamente ricchezza dalla carta ma ha altresì provocato il disastro. Gli elettori, ex pescatori di merluzzi diventati banchieri, hanno bocciato a marzo David Oddsson, l’ex premier liberista e demagogo che negli ultimi anni ha guidato la Banca centrale, eliminando i più basilari controlli sul credito, totalmente fiducioso della "mano invisibile" del mercato.
L’eredità di questa politica ultraliberista in salsa islandese è pesante: il Pil si ridurrà nel 2009 del 10%, il deficit salirà al 13,5%, la disoccupazione è al top (8,9%). Senza contare che la crisi ha falciato risparmi di una vita e fondi pensione mentre il crollo della moneta ha fatto schizzare i prezzi.
Il nuovo premier socialdemocratico Sigurdardottir, ha azzerato i vertici dell’istituto centrale e ha rispolverato i libri di Keynes lanciando un piano di investimenti. Ora Reykjavik dovrà prendere la medicina amara anche su pressione dell’Fmi che ha concesso uno standby da 2,1 miliardi di dollari. Come? Cercando di stabilizzare la corona dalla svalutazione vista la montagna di debiti in va-luta, aumentando la pressione fiscale e riducendo le uscite. Il generoso welfare sarà solo un lontano ricordo.
L’esperienza norvegese
Tutta un’altra storia la vicenda norvegese. Quando il capitalismo sembrava sull’orlo del collasso lo scorso autunno, Kristin Halvorsen, il socialista ministro delle Finanze norvegese da sempre scettico sulle teorie del laissez- faire, fece una mossa controcorrente.
Mentre gli investitori di tutto il mondo erano presi dal panico lei autorizzò il Fondo pensioni del Governo norvegese ad acquistare azioni per 60 miliardi di dollari - il 23% del pil del Paese, come rivelò al Forum di Davos.
Mossa azzeccata. Il momento era quello giusto - ha detto Halvorsen, ripensando con soddisfazione al rialzo globale che iniziò a marzo.La crisi finanziaria ha colpito le economie di tutto il mondo con la felice eccezione della Norvegia Felix.
Il paese dei fiordi ha trovato un suo modo particolare,dal sapore colbertiano,di affrontare la crisi: mentre gli altri paesi spendevano, lei risparmiava; mentre gli altri riducevano i controlli del governo la Norvegia rafforzava il ruolo del welfare pubblico. Olso preferiva che la mano pubblica aiutasse la "mano invisibile".
La Norvegia è un piccolo paese omogeneo di 4,6 milioni di abitanti che beneficia della manna petrolifera pari a 68 miliardi di dollari nel 2008 quando i prezzi schizzarono ai massimi. Ma quando i prezzi sono scesi Olso non si è preoccupata.
Questo perché la Norvegia non è caduta nella trappola che ha colpito molti paesi esportatori di petrolio. Invece di sperperare, il paeseha indirizzato i profitti della vendita del petrolio in un fondo sovrano, oggi tra i più ricchi al mondo. Così mentre altri paesi soffrono la Norvegia se la ride delle cicale che vedono avvicinarsi l’inverno economico in piena estate.
Non solo. Nonostante la peggior recessione dai tempi della Grande depressione la sua economia è cresciuta appena sotto il 3 per cento. Il Governo ha un surplus di bilancio dell’11 per cento.
Gli anglosassoni
Anche gli Stati Uniti quest’anno si aspettano che il deficit salirà al 12% del Pil e il debito toccherà gli 11 mila miliardi, il 65% della prodotto interno mentre i T-bond decennali sono saliti venerdì al 3,82 per cento.
La parsimonia norvegese contrasta anche con la Gran Bretagna che ha sperperato molte delle sue entrate petrolifere del Mare del Nord negli anni del boom. Le spese pubbliche sono salite dal 42% del pil nel 2003 al 47 attuali. Nello stesso periodo in Norvegia le spese pubbliche sono scese dal 48% del Pil al 40 per cento: statalisti sì, ma con jucio.
Come è potuto accadere tutto ciò? «Islanda, Baltici, Usa e Regno Unito non hanno più il senso di colpa-dice Anders Aslund,esperto di Scandinavia al Peterson Institute of International Economics a Washington - . La Norvegia ha mantenuto un senso dei valori di un tempo ».Olso avrebbe ancora l’etica calvinista del dovere di fronte al denaro guadagnato.
Anche il panorama cittadino a Olso parla del modo con cui si è progettato il futuro.A differenza di Reykjavik, Dublino, Dubai e Ryad dove i grattacieli a metà e le gru immobili punteggiano il panorama, Oslo oggi trasforma il suo ambiente urbano con l’inaugurazione di un nuovo teatro dell’Opera costato la bellezza di 800 milioni di dollari.«Nessun dorma»,cantano a Oslo in queste sera di primavera, ma il richiamo è per le cicale nel mondo.