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 2009  giugno 09 Martedì calendario

Che delusione per l’Europa il nuovo inizio di Obama - Un bilancio deludente. La visita del presidente americano Barack Obama si è conclusa tra toni sfumati e titoli di coda

Che delusione per l’Europa il nuovo inizio di Obama - Un bilancio deludente. La visita del presidente americano Barack Obama si è conclusa tra toni sfumati e titoli di coda. Doveva essere il momento in cui la nuova amministrazione, finalmente, si smarcava dal ruolo di principale responsabile della crisi finanziaria ed economica, che è ormai inevitabile attribuire agli Usa nel corso dei summit del G8, o del G20, che si susseguono da mesi, in un rosario di accuse ormai insostenibile per chi pretende di governare il mondo intero. Una missione che avrebbe dovuto essere preparata più intensamente, sul piano politico e diplomatico, invece si è mossa prevalentemente sul terreno mediatico, arrivando su tutti gli schermi e campeggiando sulle prime pagine dei giornali. Lasciando il giorno dopo, più che progetti già operativi, soprattutto interrogativi e perplessità. Tanto spazio ai commenti sulle intenzioni, ben poco sulle decisioni. Riad, Il Cairo, Dresda, Omaha beach e Parigi dovevano essere tutte tappe simboliche, ognuna delle quali doveva marcare la strategia internazionale della nuova amministrazione. Una strategia che richiedeva l’acquisizione di consensi, il consolidamento delle alleanze tradizionali, decisioni chiare. Le reazioni sono invece state tutte all’insegna dell’incertezza. Aver trascurato il peso politico attuale dell’Europa nel suo complesso, per ricordare - ancora una volta simbolicamente e mediaticamente - solo gli orrori nazisti ed il ruolo di liberatori svolto dagli americani e dai canadesi, è stato un po’ come cancellare 60 anni di alleanza e di comune sentire. Sessanta anni in cui America ed Europa sono state convintamente dalla stessa parte, per difendere la libertà e la democrazia. stato come se, per il presidente Obama, l’Europa non abbia alcun ruolo nel futuro del mondo: non è né pilastro di una alleanza atlantica, né parte di una nuova strategia verso il mondo islamico. il trapassato a legarci, non un nuovo progetto comune. questo il vero limite di una visita che poteva essere storica, ma che rischia di rimanere confinata alla cronaca. Sui temi del petrolio e dell’energia, strategici sia dal punto di vista politico, per i rapporti con il mondo islamico, che sul piano economico e finanziario, per il mantenimento degli equilibri mondiali, si ripete il paradigma già visto. Anzi, neppure il concomitante rialzo del prezzo del petrolio deve aver scaldato più di tanto i rapporti con Riad, che già l’estate scorsa, quando il greggio schizzava alle stelle, si dichiarò del tutto estranea alla crescita del prezzo. Anche stavolta, l’aumento si fonda su andamenti del tutto ipotetici della domanda futura. La preoccupazione ha preso subito il sopravvento: con la forte flessione economica in atto, la disoccupazione a livelli record e le industrie automobilistiche in crisi, si rischia di ripercorrere lo schema di un anno fa: quello di una componente solo finanziaria della domanda che incide rapidamente sulla formazione del prezzo, e concorre negativamente alla formazione delle aspettative degli operatori. Inattendibile e controproducente allora, questo fenomeno si conferma distorsivo per l’economia reale. Sulla questione palestinese, Tel Aviv è ancora più isolata: la minaccia nucleare dell’Iran rimane dov’è. E i problemi interni, legati al destino dei coloni, pure. Né la richiesta - nel discorso pronunciato a Il Cairo - di un «nuovo inizio» nei rapporti con il mondo islamico, né la accettazione del velo che copre il capo delle donne come segno di libertà religiosa e non di sottomissione, sono riuscite ad andare oltre l’appello simbolico. Parole forti, accorate, dense di emozioni, ma senza un chiaro disegno dei prossimi passi. In Europa, il quadro delle alleanze è risultato addirittura più fragile e meno felice rispetto a quello frastagliato costruito da Bush, che pure aveva sofferto per la disaffezione di Francia, Germania e Spagna. Anche a voler trascurare il rapporto con l’Italia, sempre importante ma mai più decisivo dopo la caduta del Muro di Berlino, la situazione è caratterizzata innanzitutto da una Gran Bretagna che si ritrova con economia e governo in pezzi, e che tutto può fare tranne presentarsi come paladina della nuova amministrazione americana, dopo aver sostenuto per decenni la finanziarizzazione dell’economia e la politica estera dei repubblicani. La Francia, che pure si era esposta in modo inusitato contro la guerra in Iraq, avrebbe dovuto diventare il pivot europeo del riavvicinamento americano al mondo islamico. E invece no: la questione dell’ingresso della Turchia nella Unione europea e la questione del velo indossato dalle donne investono convincimenti profondi del presidente Sarkozy. Sono questioni dirimenti, su cui il presidente francese ha giocato gran parte della sua campagna elettorale e mosso i primi passi importanti del suo mandato. L’iniziativa euro-mediterranea, fortemente voluta dalla stessa Francia, si muove su uno scenario completamente diverso rispetto a quello sotteso all’allargamento dell’Unione alla Turchia e poi ad altri Paesi del Mediterraneo: parte dalla constatazione che l’Unione Europea è giunta alla fine del suo percorso di estensione territoriale e di rafforzamento strutturale. Il Mediterraneo richiede un approccio affatto diverso rispetto a quello iniziato in Europa con il mercato comune. Sarà un processo eminentemente politico, tra Stati, senza le mediazioni della burocrazia di Bruxelles e tanto meno di una Commissione che la faccia da padrona. L’ingresso della Turchia nell’Unione avrebbe solo conseguenze negative: la snaturerebbe, comprometterebbe il disegno complessivo di una grande Unione Euromediterranea, allontanerebbe dall’Europa proprio i Paesi che hanno i più antichi, intensi e strutturati rapporti con l’Europa stessa, come Egitto, Tunisia, Marocco; isolerebbe ancora di più Israele. Anche dalla Germania il messaggio è chiaro: la crisi è grave e le ricette americane, al di là dei provvedimenti finanziari assunti per il salvataggio delle banche, sono confuse e contraddittorie. La vicenda Opel è sintomatica, sotto ogni punto di vista. Il crollo dell’industria automobilistica americana ha ragioni interne, probabilmente legate agli extra-costi che Detroit paga per le spese sanitarie ai propri dipendenti: il fallimento pilotato di Chrysler e General Motors consente di ridiscutere con i sindacati alcuni storici privilegi di cui hanno goduto i dipendenti del settore, e spiana la strada alla riforma che i democratici inseguono dai tempi di Clinton. Tutto questo ha ben poco a che vedere con il risparmio energetico e con gli impegni sul protocollo di Kyoto, che fanno solo da sfondo alle manovre in corso. In pratica, per ragioni di politica interna americana, la Opel e la Germania si trovano di fronte ad una politica di fatti compiuti di cui stentano a comprendere i principi ispiratori. Questa vicenda, per di più, acuisce nel momento meno opportuno le problematiche legate ai rapporti industriali e finanziari con la Russia. Questione che sarebbe comunque delicata, ma che risulta insostenibile in un momento di crisi come quello attuale, in cui l’area su cui la Germania ha esteso la propria influenza negli scorsi 20 anni si trova in grave difficoltà. Insomma, Obama, rientrando a Washington, lascia dietro di sé una grande delusa, ed è proprio quell’Europa che tanto aveva tifato per la sua elezione.