Marcello Sorgi, La stampa 9/6/2009, 9 giugno 2009
BERLUSCONI E LO SCHIAFFO SICILIANO
Quello schiaffo dai siciliani, il Cavaliere proprio non se l’aspettava. E dire che da tempo lo avevano avvertito che nell’isola le cose non andavano più bene. Gianfranco Miccichè, l’autore, nel 2001, del famoso cappotto 61 a zero contro il centrosinistra, e uno dei pochi a godere ancora del privilegio di un pigiama e del diritto di pernottare in via del Plebiscito, gliel’aveva ripetuto faccia a faccia: «Si ricordi, Presidente. I miei conterranei sono svelti a cambiare idea. Anche Leoluca Orlando fu per qualche tempo padrone della Sicilia, salvo ad essere disarcionato tutt’insieme».
Adesso Orlando si gode quel 17 per cento, che lo ha riportato di nuovo sugli altari a Palermo e ha dato un contributo rispettabile al successo dipietrista in Continente. Invece il Pdl, che da sempre aveva allineato percentuali di dieci punti superiori alla media nazionale del centrodestra, stavolta si lecca le ferite. Alla fine, il risultato è di un punto scarso sopra il magro 35 per cento racimolato da Berlusconi nel resto d’Italia. La falla aperta in quel che veniva chiamato "il granaio azzurro", e che una volta compensava largamente le sorprese leghiste al Nord e il testa a testa nel Centro Italia, ha contribuito fortemente ad abbassare la percentuale.
Nel silenzio così familiare ai siciliani, circolano cifre e scambi di accuse tra i rissosi capicorrente del Pdl, che alla vigilia del voto hanno quasi costretto il presidente della Regione Lombardo ad aprire la crisi del suo governo locale. Sott’accusa è il neocoordinatore regionale Giuseppe Castiglione, presidente della Provincia di Catania, e la sua corrente che ha fatto il record di preferenze, anche a discapito del capolista Berlusconi. Mentre infatti il Cavaliere, secondo le intese, a Palermo come a Trapani, a Messina come a Siracusa e Ragusa, doveva essere votato dalla somma di tutte le componenti del partito, in modo da contribuire all’ammasso di quei milioni di voti che avrebbero dovuto contrassegnare l’atteso successo personale del leader, a Catania e ad Enna, dominio di Castiglione, ciò non è avvenuto. E il Cavaliere, che a Palermo, per esempio, s’era ritrovato con quasi il doppio di preferenze (oltre 50mila, contro 27mila) del meglio piazzato, a Catania ha dovuto vedersela con un certo Giovanni Lavia, che per gran parte della conta delle schede gli è rimasto davanti, e ha concluso quasi in pari.
Uno sgarbo insopportabile, a detta dei compilatori di tabelle, che veloci sono state fatte arrivare a Piazza del Plebiscito, agli occhi del premier. Il quale, prudentemente, o forse irritato dall’inestricabile lite dei suoi proconsoli isolani, questa volta in Sicilia in Campagna elettorale non s’era fatto vedere. Qualche refolo di questo clima irrespirabile s’era avvertito nel corso del viaggio del Presidente della Repubblica Napolitano. Giunto a Palermo per una visita di due giorni, poco prima delle elezioni, il Capo dello Stato s’era ritrovato a cena a Villa Igiea con il governatore Lombardo, e perfino con qualche posto vuoto a tavola, come quello del presidente dell’Assemblea regionale Francesco Cascio, che aveva declinato l’invito pur di non doversi sedere con l’odiato presidente della Regione.
Allo stesso modo si era lamentato pubblicamente, per non essere stato invitato il presidente del Senato Renato Schifani (che pure, in lite con Lombardo, non sarebbe mai andato). Il ministro Angelino Alfano aveva optato per una presenza istituzionale alla commemorazione di Falcone, il 23 maggio, evitando ogni incontro conviviale. Inoltre, come vuole la tradizione querula delle offese siciliane, lo strascico delle polemiche per i mancati inviti o le mancate presenze era andato avanti per giorni e giorni, a colpi di conferenze stampa. Finchè Lombardo, considerando tutto ciò un oltraggio alla sua persona, aveva deciso per la crisi e la rapida ricostituzione di un governo con fuori l’Udc e gli assessori ribelli vicini al coordinatore Castiglione e ai seguaci di Schifani e di Alfano.
Spiegare una così intricata ragnatela di interessi, caratteri, sensibilità, mal di pancia, oltre che di radicate antipatie locali, a Berlusconi, sorpreso dalla crisi regionale prima del voto, s’era rivelato impossibile. E ancor di più lo è diventato nel clima plumbeo del dopo-elezioni. Anche perché la débâcle siciliana, come più in generale quella meridionale, è legata alle liti dei capicorrente, ma non solo. Che lo scontro tra Schifani, Alfano e Castiglione, da una parte, e Miccichè e Lombardo dall’altra, non abbia portato voti è singolare. Le macchine correntizie erano state messe a regime. La sproporzione di truppe era evidente: nella prima corrente militavano i sindaci di Palermo, Ragusa, Trapani e Agrigento, i presidenti delle provincie di Catania e Messina, il presidente dell’Asl 6, la più grande d’Italia, un congegno catturavoti di sicuro affidamento, finora, e invece a sorpresa entrato in tilt. Nella seconda, uscita battuta, accanto al governatore e a tre assessori, il solo sindaco di Siracusa e la ministra dell’Ambiente Prestigiacomo.
Ma il flop in piena gara di preferenze non si capisce. Ci dev’essere dell’altro. E infatti il mancato aumento dei voti al centrodestra ha una spiegazione anche in termini nazionali: la decisione, per la prima volta, di bloccare i fondi FAS che dovevano servire a mettere in moto il meccanismo clientelare che da sempre alimenta la raccolta dei voti al Sud e in Sicilia. Il governo ha deciso di soprassedere, sulla base di una motivazione che il ministro delle Regioni Raffaele Fitto, in persona, s’è incaricato di spiegare a Berlusconi. Se io do i soldi alla Puglia, che pure è la mia terra, ha spiegato più o meno con queste parole Fitto al Cavaliere, a beneficiarne sarà l’amministrazione di sinistra e il governatore Niki Vendola, che tra l’altro si presenta alle europee come capo di un nuovo partito. Dunque, almeno fino alle elezioni, non glieli do. Berlusconi ha approvato, E lo stesso ragionamento è scattato per la Sicilia e contro Lombardo. Così, per la prima volta, il fiume di denaro che da Roma, a Bari, al palazzo arabo dei Normanni di Palermo, rinfrescava la memoria agli elettori, è rimasto secco. E gli elettori, il giorno delle elezioni, sono rimasti a casa.