Arturo Zampaglione, Affari&Finanza 8/6/2009, 8 giugno 2009
FORD PRIVATA L’ULTIMA TRINCEA
Da giovane Barack Obama non aveva grande fortuna con le auto. Imparò a guidare su una Ford Granada del nonno: «Era la macchina peggiore costruita da Detroit», disse in un’intervista durante la campagna elettorale. «Sembrava una scatola di latta che a 130 chilometri l’ora non teneva la strada».
Durante gli studi guidava una vecchia Fiat, «che aveva sempre problemi meccanici», ha riferito durante i negoziati per la Chrysler. Dall’anno scorso invece Obama possiede una Ford Escape ibrida, che ha esibito durante una cerimonia alla Casa Bianca alla presenza dei dirigenti di Detroit, tra cui Alan Mulally, ceo della Ford, che sfoggiava un sorriso compiaciuto. Fin qui i rapporti tra Obama e Mulally sono stati cortesi ma mai molto intensi. Il presidente e il suo team dell’auto guidato da Steven Rattner hanno concentrato l’attenzione sulle due malate Chrysler e Gm: ora per la prima si è aperta la fase della gestione Marchionne, per la Gm, ormai soprannominata Government Motors sono state avviate le procedure fallimentari cui seguirà l’aiuto statale.
La Ford è l’unica a non aver chiesto aiuti e a non essersi assoggettata a condizionamenti. Mulally, 63 anni, è l’unico manager americano dell’auto non travolto dalla crisi, mentre Rick Wagoner della Gm è stato costretto alle dimissioni su pressioni del Tesoro e Bob Nardelli sta per lasciare il timone della Chrysler. Qual è il segreto di Mulally? Come ha fatto a proteggere la Ford dal destino delle altre due big pur subendo lo stesso crollo delle vendite legato all’impennata della benzina, al prosciugamento del credito e alla recessione? La ragione principale, ma non sufficiente, è che Mulally, poco dopo essere stato nominato al vertice del gruppo nel settembre 2006, ha intuito prima di altri l’avvicinarsi della crisi e ha lanciato un maxiprestito per 23,6 miliardi di dollari garantito dagli asset dell’azienda. Concepita dall’allora direttore finanziario Don Leclerc, l’operazione finanziaria sembrava rischiosa, provocando reazioni ironiche degli analisti di Wall Street e preoccupazioni tra gli investitori. Ma i fatti hanno dato ragione a Mulally.
Iniziata nel dicembre dell’anno successivo, la recessione ha costretto le tre di Detroit a bruciare le risorse disponibili a ritmi frenetici. Ma mentre Gm e Chrysler si sono ritrovate alla fine del 2008 senza più un soldo e con la necessità di rivolgersi al governo, la Ford ha fatto leva su quei 23,6 miliardi per restare a galla ed evitare la seminazionalizzazione. Solo un colpo di fortuna, quello di Mulally? Chi lo conosce, chi lo stima – e sono in molti, sia alla Boeing dove ha lavorato per quasi 40 anni sia a Detroit – risponde di no. Quella operazione, come altre da lui avviate nella stanza dei bottoni della Ford, sono il frutto di una filosofia manageriale precisa e di un approccio che privilegia la disciplina, la perseveranza e la voglia di vincere. "Sono qui per salvare un simbolo dell’America", ripete Mulally ai giornalisti che entrano nel suo ufficio la dodicesimo piano del quartiere generale di Dearborn, nel Michigan, alle porte di Detroit.
A differenza della maggioranza degli executive dell’auto, Mullaly – come del resto Marchionne – è arrivato da fuori. Nato a Oakland, in California, negli stessi giorni in cui l’America sganciava le bombe atomiche sul Giappone, si è laureato in ingegneria aeronautica all’università del Kansas ed è entrato alla Boeing nel 1969, lavorando sulla lunga serie dei modelli 737, 747, 757, 767 e 777. Proprio di quest’ultimo divenne general manager. Si parlò di Mullaly come possibile chief executive della Boeing prima come successore di Phil Condit, poi di Harry Stonecipher: ma non fu lui il prescelto. Quando gli fu offerta la poltrona alla Ford, non ci pensò due volte e il 5 settembre 2006 ereditò la guida della casa automobilistica fondata nel 1903 da Henry Ford.
Il colosso non era più quello di una volta: da numero due nel mondo dopo la Gm, stava per essere superato da Toyota e Volkswagen. I costi del lavoro, più alti di quelle della case asiatiche per via degli accordi sindacali e del peso dei contributi assistenziali, influivano sui bilanci. E William Ford, esponente della famiglia che da sempre controlla il board attraverso un tipo di azioni speciali, non era riuscito in cinque anni di gestione né a fermare il declino né ad adeguare i modelli alle tendenze del mercato, puntando ancora sui suv come l’Explorer e i camioncini. Molti la consideravano un’azienda decotta.
Accolto a braccia aperte da Ford, che pur conservando il titolo di presidente esecutivo intuiva le capacità del nuovo chief executive, Mulally si mise subito al lavoro. La maxilinea di credito fu solo il primo passo: subito dopo cambiò le priorità aziendali, accelerò l’integrazione globale del gruppo, decise di vendere Jaguar e Land Rover agli indiani della Tata per focalizzarsi sul marchio Ford, riesumò la Taurus (Mondeo) ordinando un restyling, restrinse la gamma di modelli (da 97 nel 2006 a 40 nel 2013), si attrezzò per lanciare sul mercato americano le vetture più piccole, moderne ed efficienti concepite in Europa (Fiesta, Focus), investì nella ricerca e sviluppo. E soprattutto trasformò lo stile di lavoro interno.
Mulally, che vive a 5 chilometri dall’azienda (e ha ancora la famiglia a Seattle), è in ufficio alle 5 e un quarto di mattina e ci resta per 12 ore. Le due stanze accanto alla sua sono tappezzate con 280 diagrammi con cui segue la performance dei vari settori dove lavorano 205mila dipendenti. Alle 8 di ogni giovedì convoca una riunione dei luogotenenti per discutere su strategie e problemi: nessuno può distrarsi, neanche per un’occhiata al Blackberry o due parole con il vicino. "Ci sono analogie tra i produttori di aerei e quelli di auto", osserva Alex Taylor su Fortune: il peso della ricerca, la fitta rete di fornitori, la forza dei sindacati. "Ma ci sono differenze nel marketing e nei rapporti con i concessionari di cui Mulally non aveva alcuna esperienza". Risultato: lascia ai suoi collaboratori le scelte tecniche e si concentra su quelle strategiche.
La Ford è ancora in mezzo al guado e continua a perdere soldi. Il 2009 è cominciato male: 1,4 miliardi di buco nei primi tre mesi. Ma il metodo Mulally comincia a dare frutti. Le vendite di maggio sono state le più robuste dal luglio del 2008 facendo aumentare la quota della Ford nel mercato americano. Secondo Patrick Archambolt della Goldman Sachs, il gruppo potrebbe aggiudicarsi il 25% delle mancate vendite in questa fase fallimentare di Gm e Chrysler. Con quattro accordi con l’Uaw, il sindacato dell’auto, Mulally è riuscito a ridurre il costo orario da 76 dollari a 55, avvicinandosi alle medie della Toyota. A marzo ha ripagato una parte del prestito: non molto, 2,4 miliardi, ma una mossa carica di simbolismi. La sfida della Ford si giocherà nel 2010 e 2011 quando con la ripresa economica e il rilancio di Gm e Chrysler, dovrà dimostrare di aver fatto bene a rifiutare l’aiuto del governo. Mulally non ha paura. Anzi c’è chi dice che il suo sogno è di superare la Gm, dare alla Ford lo scettro di prima casa tutta americana (e tutta privata) e di vendere a Barack Obama la prima auto di nuova generazione Made in Usa.