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 2009  giugno 08 Lunedì calendario

CI SALVERA’ LO STATO PADRONE?


La rivoluzione del terzo millennio è una questione da quasi mille miliardi di euro. E’ la somma che in poco più di un anno ha ribaltato l’universo della finanza mondiale, riportando al centro un protagonista che sembrava destinato all’estinzione: lo statopadrone. Eppure, pochi mesi fa, all’inizio del 2008, la proprietà pubblica era un oggetto da modernariato, roba da paese in via di sviluppo. Le Borse di tutto il mondo ruotavano sui nuovi dei del capitalismo globale: hedge fund, fondi sovrani e private equity.

La triade che grazie a un disponibilità quasi illimitata (11,5 miliardi di dollari, sei volte il pil italiano) era destinata ”vaticinava a fine 2007 la McKinsey – a dominare il futuro dei mercati internazionali. Oggi è cambiato tutto. arrivata la bufera dei subprime. crollata la Lehman. Il pil mondiale viaggia sottozero. I soldi della triade, costruiti su una montagna di derivati, opzioni e future, si sono rivelati un gigantesco castello di carta. Per tappare le voragini aperte dalla finanza creativa è tornato il figliol prodigo dell’economia: il denaro pubblico.
Il virus della nazionalizzazione è una pandemia che non risparmia nessuno. Anzi. I più attivi sono i paesi anglosassoni che fino a pochi mesi fa giravano per il mondo predicando le virtù del libero mercato. Secondo Thomson Reuters nel primo trimestre di quest’anno gli stati hanno investito 130 miliardi (dei contribuenti) in azioni di aziende e banche in crisi. Il triplo dell’anno precedente. E a far la parte del leone ci sono Stati Uniti e Gran Bretagna con il 50% del totale. Da ottobre ad oggi sono stati emessi quasi 600 miliardi di obbligazioni creditizie con garanzia pubblica. Il povero Hugo Chavez, sbertucciato un anno fa dai guru di Wall Street e dai vati delle università Usa per l’interventismo nell’economia del paese, ha trovato autorevoli proseliti. L’Islanda, finita in bancarotta, è diventata un paesebanca, visto che in meno di tre settimane ha preso il controllo dei suoi unici tre istituti di credito, esposti all’estero per una cifra pari a sei volte il pil nazionale.
L’Irlanda, che ha appena messo altri 4 miliardi di euro per puntellare la traballante Anglo Irish Bank, ha speso il 6% del suo prodotto lordo per ricomprarsi società private e sembra vicina a riportare sotto l’ombrello pubblico la Air Lingus. In Germania, dove il Germany fund voluto da Angela Merkel e l’ente pubblico Kfw hanno già fatto shopping azionario per almeno 70 miliardi (salvando Hypo Re, Commerzbank, Ikb e Westlb) si è messa in coda per avere una mano dal nuovo Paperone dei mercati mondiali, il governo, persino la Porsche, indebitata per 9 miliardi dopo il tentativo di scalata alla Vw.
L’epicentro del ritorno dello statopadrone, per la legge del contrappasso, ruota attorni ai templi del capitalismo mondiale: Wall Street e la City. Qui capitalismo e liberismo hanno galoppato liberi per decenni. Creando ricchezza ma anche generando mostri come i superbonus ai dirigenti e la bolla dei derivati. I primi colpi alle certezze sono arrivati a febbraio 2008 quando davanti alle sedi della Northern Rock, uno dei più grossi concessionari di mutui britannico, hanno iniziato a formarsi lunghe code di clienti che chiedevano di avere indietro il loro denaro temendo un fallimento della società. E’ stata la palla di neve che innesca la valanga. Londra è intervenuta a gamba tesa per evitare una crisi di sfiducia, garantendo i soldi dei correntisti e nazionalizzando Northern Rock. La valanga non si è più fermata. Il governo di Gordon Brown è oggi azionista di controllo della Royal Bank of Scotland (dove ha investito 20 miliardi di sterline) e ha una bella quota in Lloyds Bank. Washington ha staccato un assegno da 200 miliardi per sostenere le due aziende di mutui Fannie Mae e Freddie Mac, ha una partecipazione del 79% nell’assicuratrice Aig cui ha girato 170 miliardi di aiuti. Il colosso Citigroup sta in piedi perché la Casa Bianca ha provveduto a rivitalizzarlo sottoscrivendo obbligazioni convertibili in titoli per 45 miliardi. «Tenere in piedi la finanza nazionale era obbligatorio», ha spiegato Obama. Altrimenti sarebbe collassato tutto il sistema. Sarà. Però oggi all’incasso si sono presentati i big di Detroit. E lo Stato è entrato nel capitale di Chrysler e Gm investendo oltre 50 miliardi di dollari.
I teorici del liberismo non si scandalizzano più di tanto. «A volte il capitalismo va salvato da se stesso», è la vecchia lezione di John Maynard Keynes. E in fondo nei momenti di crisi (è successo in America anche all’epoca del new deal roosveltiano) l’economia è stata spesso puntellata con pragmatismo dal denaro pubblico. «Le nazionalizzazioni – ha chiosato di recente Paul Krugman – sono un patrimonio americano come la torta di mele». Anche se invece di un piacevole retrogusto alla cannella, lasciano in eredità ai contribuenti americani un deficit da brividi che potrebbe costare l’onta di un clamoroso declassamento del rating sotto la soglia della Tripla A.
In Europa, Londra a parte, l’allievo più diligente in questa nuova ondata di nazionalizzazioni è stata di sicuro la Germania della Merkel. Il governo di coalizione impedisce scelte amare. E così Berlino ha gettato alle ortiche il vecchio modello del capitalismo renano – le banche non hanno più i soldi per fare da collante al mondo delle imprese – indossando di nuovo l’abito dello stato padrone. Anche da questa parte dell’Atlantico la rivoluzione copernicana non stupisce nessuno. La Ue avvia le sue tradizionali inchieste dai tempi lunghi. Ma ha approvato senza batter ciglio maxioperazioni come la ricapitalizzazione pubblica della Commerzbank. «L’uso di denaro pubblico a volte è inevitabile e necessario», ha ammesso persino un custode dell’ortodossia liberista come il presidente della Bce, Jean Claude Trichet. «L’importante è che la presenza dello stato nelle banche sia transitoria». Nessuno vuole ripetere l’errore fatto con la Lehman. Libero mercato va bene. Ma ci sono realtà, bancarie e industriali, troppo grandi per fallire. Così nessuno governo del vecchio continente, progressista o conservatore, si è tirato indietro di fronte al rischio di crac sistemici: la cautissima svizzera (che genera oltre il 25% del pil con il credito) ha sborsato 4 miliardi di franchi per tenere in piedi l’Ubs. Olanda, Belgio e Danimarca hanno inventato il salvataggio transfrontaliero per rimettere insieme i cocci di Fortis e Dexia. Ognuno ha fatto la sua parte, rinazionalizzandosi il suo pezzo di banca.
Amsterdam ha pagato qualche decina di miliardi per sostenere Ing e Parigi (dove le nazionalizzazioni non sono mai state tabù) ha dato una mano a Bnp con 2,5 miliardi. In Italia, dove le arretratezze del sistema bancario si sono rivelate in realtà una sorta di vaccino anticrisi, lo stato è rimasto in panchina. Inventando quei Tremonti bond che non sembrano aver scaldato più di tanto un sistema creditizio che almeno fino a prova contraria sembra riuscire a reggere. Il problema nel nuovo mondo con al centro lo statopadrone, è cosa succederà ora. Le banche centrali non potranno continuare a stampare moneta all’infinito per finanziare salvataggi a gogo. Dopo la bolla dei subprime, si creerebbe la bolla (già abbastanza gonfia) del debito pubblico. Il fallimento la scorsa settimana dell’asta dei titoli di stato lettone è stato un primo preoccupante campanello d’allarme. L’equilibrio è delicato e il mondo cammina su un filo: se le nazionalizzazioni decise fino ad oggi basteranno a garantire la ripresa, l’intervento pubblico nell’economica sarà solo una parentesi transitoria come vorrebbe Trichet (anche se uscire da una banca è molto più difficile che entrarci). Altrimenti alle porte delle casse statali continueranno a bussare sempre più aziende. E non a tutte, a quel punto si potrà dire sì.