Giulio Tremonti, ཿIl Sole-24 Ore 9/6/2009;, 9 giugno 2009
NON SIAMO EUROSCETTICI MA EUROSAGGI
In Europa, il cambiamento portato dalla crisi viene marcato da segnali diversi, a volte soft, a volte hard, tutti comunque significativi.
Cominciamo dai primi, dai segnali soft. La mia impressione è che, per effetto della crisi, l’immagine popolare dell’Europa sia diventata un po’ dappertutto meno asettica, meno dogmatica, più empirica.
Un’immagine che, attraverso la crisi, entra finalmente nel vivo, nel vissuto dei nostri popoli, più di quanto fosse prima. E questa evoluzione è positiva. In Italia, in particolare, l’Europa è stata a lungo vista e vissuta da un lato con forme di culto idolatrico; dall’altro lato con forme di reazione e rigetto quasi ironico. E devo ammettere che, quanto erano eccessive alcune espressioni dogmatiche di culto, tanto erano a loro volta eccessive le posizioni opposte reattive e ironiche. Per effetto della crisi, l’Europa è infatti progressivamente vista in positivo, come strumento di assicurazione e di protezione. Ed è ora anche possibile guardare al passato in una logica più equilibrata, cercando di capire le rispettive posizioni.
Io, per esempio, ero considerato euroscettico.
Non lo ero affatto, in realtà, ma certo ho rilevato – e tante volte – aspetti che, se non visti attraverso il culto dominante, apparivano discutibili, o rappresentabili in termini diversi. D
al 2001 in poi, anche prima di assumere ruoli di governo, ho sostenuto per esempio che l’allargamento dell’Unione Europea ai paesi dell’Est fosse giusto, ma che fosse troppo breve il tempo della sua attuazione. Si può legittimamente sostenere una cosa o l’altra, ma anche sostenere che fare la cosa giusta nel momento sbagliato può produrre una cosa sbagliata. Quando sostenevo che i tempi dell’allargamento erano troppo brevi, ero considerato euroscettico. Mi pare che ora l’abbiano scritto e detto anche autorevolissimi rappresentanti italiani il cui pensieroazione si esprime nella direzione opposta. La stessa reazione c’è stata quando sostenevo che alcuni elementi del Patto di Stabilità e di Crescita fossero discutibili. Allora, il patto era dominante, anche al margine dei decimali. La mia tesi era considerata un argomento italiano per eludere le regole europee, poi però e ”autorevolmente” è stato detto che il patto era stupido e per questo andava riscritto. Ed è stato così...
Il professor Monti mi ha contestato tante volte la misurazione chilometrica della Gazzetta ufficiale europeae la citazione della più stravagante regolamentazione europea. Ma l’ultima ”direttiva” europea sulla quantità di sale consentita nei brötchen tedeschi o nella baguette francese non mi sembra particolarmente intelligente. Un altro esempio: l’ultimo rapporto di un gruppo di alto livello sul linguaggio di genere utilizzabile in Europa per cancellare i differenziali di gender dice che ”uomo di Neanderthal” è una forma che si può ammettere, ma ”uomo politico”e ”uomo di legge”no.
Occupare intelligenze e funzioni in esercizi di questo tipo non contribuisce certo a migliorare l’immagine dell’Europa, ma io credo ”ripeto ”che il bilancio complessivo fatto anche in base alla crisi, sia ora fortemente positivo. Rispetto a prima, viene fuori un’immagine utile e più umana dell’Europa, più intelligente, meno rigida.E questa,oggi,è una componente importante della forza dell’Europa.
Ma di quale Europa?Immaginiamo cosa sarebbe successo, in altri tempi, con una presidenza di semestre come quella della Repubblica Ceca, con un governo nazionale che cade nel pieno del suo semestre di presidenza e un presidente della Repubblica che dichiara che il tema di cui noi stiamo discutendo,l’Unione monetaria, costituisce una forma di ”eurosocialismo”. E tuttavia è stata ed è una buona presidenza. In altri tempi non sarebbe stato così. Oggi prevale invece l’immagine di un’Europa che è riuscita a esprimere, di fronte alla crisi, un’immagine positiva piuttosto che negativa.
E la ragione dipende dai cambiamenti intervenuti in parallelo anche a un altro livello, a livello hard. Qui, il dato più importante è che l’asse del potere si è spostato dalla Commissione ai governi, dal metodo comunitario al metodo intergovernativo, con un’accelerazione prodotta dalla crisi. uno spostamento che nonè collegato a considerazioni di carattere antropomorfico: la Commissione ”debole”.In realtà, non è la Commissione a essere divenuta più debole:il punto è che i governi sono diven-tati, per effetto della crisi, più forti.
La sequenza dei vertici tra capi di Stato e di governo è l’espressione del ritorno dei governi, anzi dello spostamento della forza politica dalla commissione ai governi. Alcuni dei tanti vertici sono davvero pure sedute di conoscenza o di autoscienza, altri però sono invece riunioni importanti, che hanno effetti sostanziali di decisione e di spinta. Sia i primi che i secondi sono nel complesso molto utili. Lo dimostra la successione dei provvedimenti presi, sempre su impulso dei governi: a volte sono provvedimenti apparentemente minori. Per esempio, nell’ultimo vertice europeo di primavera, si è discusso, per la parte economica, sui criteri contabili. Il governo italiano ha fatto notare che, dietro la contabilità, c’è l’ideologia e la politica, perché la contabilità non è una fredda rappresentazione ragionieristica, ma riflette l’idea che si ha della funzione dell’impresa: se l’impresa deve creare valore per gli azionisti, o invece per chi sta nell’impresa. A seconda dei criteri contabili che si applicano, si applica in realtà una certa idea del capitalismo.
Il mutamento che si è avuto sotto l’impulso della crisi economico-finanziaria non è stato solo quello dal semplice coordinamento a un coordinamento rafforzato. stato il passaggio dal coordinamento alla decisione collettiva: gli ultimi interventi europei, all’interno dell’Europa o attraverso l’Europa nel G-20, sono stati via via sempre più mirati verso forme di scelta collettiva.
Il passaggio dei passaggi,dal coordinamento al collettivo, avverrà comunque in modo completo solo quando l’Europa deciderà di fare una politica comune d’investimenti pubblici. E qui si apre il discorso di una nuova versione prima, e dell’applicazione poi, del vecchio e glorioso piano Delors. Credo che una politica di stimoli sia necessaria, in tempi di declino della domanda.E un vero stimolo l’Europalo può dare solo se fa una politica industriale d’investimenti pubblici collettivi:questa politica non è che la versione attuale del piano Delors. Eppure,continuano a dominare ”e si tratta di un limite evidente – logiche nazionali.Alla richiesta di cominciare a studiare l’emissione di eurobond, la reazione di parecchi governi europei è stata questa: gli eurobond ci sono già e si chiamano Bund. l’espressione di una visione non particolarmente comunitaria, anche se viene dalla Germania e anche se non cancella la nostra speranza di progredire verso l’obiettivo di bond europei.
Quanto all’immagine hard del nostro paese, dobbiamo tenere conto, nella realtà sostanziale, di un primo aspetto: il differenziale italiano relativo al debito pubblico. L’Italia è ancora un paese che ha un debito pubblico a tre cifre, mentre gli altri lo hanno a due cifre, pur avendo una velocità di crescita del debito maggiore della nostra.
Questo dato di fatto ha marcato la nostra storia.L’Italia cresce molto negli anni 60 e negli anni 70, fino a recuperare, negli anni 80, il suo differenziale di crescita con l’Europa:ma lo fa da ultimo anche con la spinta del debito pubblico. Quando l’Italia smette di seguire una politica di spinta economica attraverso il debito pubblico, si apre il differenziale, e gli altri paesi crescono più rapidamente: forse ci si dovrebbe chiedere se l’effetto di crescita,negli altri paesi, sia davvero dipeso da riforme strutturalio non piuttosto dal fatto che questi paesi stavano in realtà accumulando enormi quantità di debito. Soltanto che in questi casi si trattava di debiti privati, non pubblici; mentre oggi che i salvataggi pubblici prendono la forma di un colossale ”derivato pubblico”,si spostano i debiti derivati tossici dal privato al pubblico. Ma alla fine sempre debito è, privato o pubblico che sia.
per questo che credo sia necessario compiere una riflessione approfondita sul rapporto tra debito e crescita. L’Italia ha un grande debito pubblico, ma non ha un grosso indebitamento privato. Considerando che ormai si tende a consolidare i due debiti, anche perché avvengono passaggi dal privato al pubblico, il differenziale negativo risulta essere meno forte di prima.
Il secondo aspetto di cui tenere conto è la struttura industriale del nostro paese: quattro milioni di partite Iva vuol dire quattro milioni di imprese medio-piccole, di lavoratori autonomi, di persone che comunque lavorano allo sviluppo economico del paese. un dato fondamentale, al quale bisogna aggiungerne un altro. Il nostro paese non ha solo export, ha anche una domanda interna rilevante. L’Italia è insomma più equilibrata di altri paesi che hanno una propensione dominante all’export, e probabilmente è anche più ricca.
Se questo non risulta dalle statistiche, e pur tenendo conto dell’evasione fiscale,è per il peso di un fattore hard spesso trascurato. Molta parte del sistema industriale italiano è legalmente posseduto attraverso holding estere basate in Europa. Il che significa che larga parte dell’attività dei gruppi industriali medi italiani è operata attraverso la struttura estera:per fare gli investimenti nell’Est o nel Asia orientale, si opera attraverso la struttura europea, utilizzando una holding europea. Cosa che per la verità non è illegale, ma perfettamente conforme a un sistema giuridico che, integrandosi, consente di trasferire la proprietà di un’attività in altri paesi europei, piuttosto che nel paese di origine. La conseguenza, in ogni caso, è che una quota enorme della ricchezza italiana non rientra nelle statistiche: non per illegalità, ripeto, ma per la semplice applicazione di un particolare criterio di organizzazione della proprietà. E, da Marx in poi, è la proprietà a contare, a fare la differenza.
In sostanza, la mia convinzione è che l’importo dei global assets posseduti in proprio dall’industria italiana sia enormemente superiore a quello che risulta dalle statistiche (e pur scontando l’evasione fiscale).
Tutto ciò spiega un elemento ulteriore:l’Italia è un paese duale, e purtroppo lo è sempre di più. Dire che in base alle statistiche siamo sotto gli standard di ricerca, di produttività o di altri indicatori è un modo assolutamente arbitrario di leggere le statistiche. Per essere chiari, il Centro e il Nord dell’Italia hanno livelli di ricchezza, strutturati da anni, comparabili a quelli delle grandi aree europee ”dalla Baviera all’le de France ”corrispondenti al grande arco di ricchezza che un tempo veniva definito ”carolingio”. E non è possibile mantenere per tanto tempo questi livelli di ricchezza senza avere un alto livello di ricerca scientifica, di produttività e di tutti gli altri indicatori che invece nelle statistiche ci vedono penalizzati. La verità è diversa da quella che ci raccontano gli esperti. E consiste nel fatto che siamo un paese unico, sì, ma duale: fondamentale, in senso negativo, è il divario crescente tra Nord e Sud. Se si considera questo elemento hard, l’unica conclusione possibile è che la nostra strategia fondamentale di permanenza in Europa dipende dal rilancio del Sud.
Perché la crescita di quel differenziale, fra Sud e Nord, è il fattore davvero critico della nostra presenza in Europa. Dobbiamo quindi evitare che questo differenziale cresca, e agire invece in modo che si riduca. per questa ragione che credo fortemente nel federalismo fiscale, espresso in questi termini: no taxation without representation. Credo anche che questa sia la strategia per evitare che un pezzo del paese finisca per differenziarsi troppo, e per tutelare così il senso migliore di una sola parola essenziale: lo stato.