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 2009  giugno 08 Lunedì calendario

OTTANT’ANNI DI BORSA PER VOCE ARANCIO



Investire in azioni i propri soldi per 80 anni, per poi scoprire di ritrovarsi con poco più di un decimo del valore al quale si erano acquistati i titoli. quanto sarebbe successo a un ipotetico, assai longevo e paziente risparmiatore che si fosse affidato alla Borsa italiana nel 1928 e facesse il suo consuntivo nel 2009. Ipotesi di scuola, avanzata dall’Ufficio studi Mediobanca in La Borsa italiana dal 1928: alcune analisi, che richiede un altro assunto: che il risparmiatore oggetto di ipotesi abbia monetizzato per intero i dividendi ricevuti in tutti questi anni, spendendoli invece di reinvestirli. In questo caso, ovviamente se avesse nel proprio paniere un misto di tutti i titoli quotati a Piazza Affari, il suo potere d’acquisto risulterebbe decurtato di oltre l’85 per cento.

Se, con maggior lungimiranza, invece di intascare la quota di utili che le società gli hanno destinato ogni anno, l’avesse ulteriormente investita, lo scenario cambierebbe di parecchio. Il rendimento, da negativo, diverrebbe dell’1% annuo. Il reimpiego dei dividendi è di fatto servito per circa il 70% a proteggere il capitale dall’inflazione e per il residuo a incrementarlo.

Certamente l’anno di partenza e quello di conclusione presi in esame non aiutano ad avere un quadro positivo. A un estremo la vigilia della più nota crisi che mai abbia colpito le Borse e le economie mondiali, dall’altro il periodo peggiore che, da allora, i mercati finanziari abbiano vissuto. Proprio ad aprile, ultimo mese preso in esame, si sono visti i primi segnali di inversione di tendenza. Ma lo studio mostra che, anche su un periodo di 30 o 40 anni, rimane il rischio di una perdita annua tra il 3 e il 4 per cento (se si guarda dal 1944 al 1983, per esempio). Un rosso ritenuto decisamente elevato, facendo il confronto per esempio con gli Stati Uniti, dove non è mai accaduto che un investimento in azioni abbia reso negativamente in termini reali per un orizzonte di più di 16 anni. O con Londra, dove tale limite sale a 22 anni.

Ma non è che affidare i risparmi alla forma più tradizionale di investimento dell’italiano medio avrebbe fornito risultati diversi. L’assenza totale di rischio, anzi, viene penalizzata oltremisura. I Bot sono sempre stati (almeno finora) a prova di ”default”, dato che l’emittente è lo Stato. Ed è impossibile vederne eroso il capitale nominale. Ma se si va a vedere il capitale reale, ipotizzando un investimento al 1938 su titoli annuali e il reimpiego di tutti i proventi, ci si scontra con una perdita annua del 3,6% e un’erosione complessiva di oltre il 90 per cento.

Ha senso inserire nei periodi presi in esame dall’analisi un evento irrituale per l’Italia negli ultimi 60 anni come una guerra sul proprio territorio? La domanda se l’è posta anche l’Ufficio studi di Mediobanca, dato che il secondo conflitto mondiale, con l’instabilità globale e l’enorme inflazione che ne derivarono, falsa inevitabilmente il computo. Prendendo come base l’inizio del 1948 (e dunque escludendo sia il periodo bellico che l’iperinflazione che lo seguì), il rendimento annuo reale delle azioni (sempre a patto di reinvestire i dividendi) passerebbe dall’1 al 3 per cento. In questo caso diverrebbe positivo anche il rendimento dell’investimento privo di rischi in Bot: +1,2% annuo in termini reali.

Guardando solamente a tempi più recenti, i Bot annuali hanno talvolta battuto gli investimenti azionari. Dal 1998 a fine aprile 2009, il rendimento medio annuo reale ”total return”, ovvero con reimpiego di quanto incassato, dei Bot a 12 mesi è stato dell’1,1% contro lo 0,7% delle azioni. Chi invece è entrato in borsa nel 2008 ha subito una vera e propria debacle, con un rendimento reale negativo pari a -39,3% contro lo 0,5% dei Bot. Dal 1988 a fine aprile 2009, il rendimento reale delle azioni è stato pari al 3,4% annuo contro il 3,3% dei Bot. Dal 1978 ad aprile 2009, il rendimento reale delle azioni è stato pari al 6,1% annuo contro il 2,7% dei Bot.


Un orizzonte ampio come quello dello studio di Mediobanca, elimina di fatto uno degli elementi determinanti per la riuscita di un impiego di denaro in Borsa: il tempo d’entrata e d’uscita. Distanziando a dismisura tali tempi, si attenuano le incognite connesse alla variabilità dei corsi, ma si riduce nettamente la significatività dell’investimento. Il momento nel quale esso avviene è fondamentale per cambiare radicalmente il risultato, se si assume un tempo limitato. Riporta l’indagine di Mediobanca che, «se si decide malauguratamente di investire in un picco di mercato, posto pari a 100 l’anno in cui esso si verifica, in media dopo 10 anni si è subito un dimezzamento del capitale, recuperando poi fino a oltre i tre quarti dopo venti, mentre al maturare del trentesimo anno si è ancora in perdita, seppure di poco».

Sembrerebbe il requiem del cassettista, ovvero del risparmiatore che investe in società considerate a bassissimo profilo di rischio, i cui prezzi difficilmente subiscono ampie oscillazioni in entrambe le direzioni e che, di solito, assicurano anche un ritorno continuo in termini di dividendi. Un atteggiamento di chi è maggiormente votato alla prudenza che a gettarsi in avventure ad ”alto beta” (ovvero che presuppongono possibilità di guadagno più elevate, ma correlate a rischi più elevati).

 davvero così? Non necessariamente, secondo Nicolò Nunziata, esperto della società indipendente di analisi JC Associati, «Le analisi americane ci dicono che, a lungo termine, il ritorno dell’investimento in Borsa si aggira sul 7-8%, a fronte di un’inflazione attorno al 2,7 per cento», spiega. E chiarisce che il caso italiano, almeno per il passato, possiede delle singolarità che non dovrebbero ripetersi in futuro. «Prima di entrare nell’euro, in Italia si sono compiute per anni svalutazioni della moneta che hanno causato un’inflazione del tutto anomala rispetto al resto d’Europa».

L’ingresso nella moneta unica ha portato, indubbiamente, una maggiore stabilità nel livello dei prezzi. Ma non a risultati brillanti per Piazza Affari, nemmeno negli ultimi anni, nei quali i consuntivi degli indici della Borsa milanese sono stati quasi costantemente inferiori non solo a quelli di mercati tradizionalmente forti come Francoforte e Londra, ma anche rispetto all’Ibex spagnolo. ”La dimostrazione – afferma Nunziata – che Milano è stata messa al margine. Inevitabilmente. In Italia ci sono poche grandi aziende, non sempre eccezionali, e una miriade di piccole e medie imprese. Solo un centesimo delle quali si è quotato. Il mercato non è veramente rappresentativo della nostra realtà economica”.

Il consiglio: guardare di più ai mercati esteri. «Gli investitori istituzionali già lo fanno e sono convinto – conclude Nunziata – che l’ulteriore svilupparsi di piattaforme di trading on line anche per utenti meno esperti convincerà i piccoli risparmiatori a fare altrettanto».

Un elemento, se non proprio nuovo, almeno più recente. Che va a inserirsi nell’annoso dibattito tra chi sostiene, anche dal fronte del piccolo risparmio, che valga la pena investire in Borsa e chi tiene fede al vecchio adagio che sia meglio piazzare ogni centesimo nei titoli di Stato. Dibattito che ha visto accese discussioni anche su recenti numeri di Plus 24, il supplemento settimanale finanziario del Sole 24 ore, tra investitori accorti e molto informati, che analizzavano con dovizia i motivi per i quali non si possa ritenere a prescindere un’’asset class” (azioni, obbligazioni, titoli pubblici, fondi, etc) migliore di un’altra.

Nella discussione spiccavano, comunque, le scarse probabilità di essere vincente della strategia ”buy and hold”. Quella, insomma, di cui prima si diceva da parte del cassettista. L’analisi tecnica e altre forme di studio dei mercati sono, dunque, necessarie per individuare il momento più opportuno per ”entrare” su un’azione. Troppa fatica in più, secondo qualcun altro, per un tipo di investimento che sovente non premia il rischio e finisce per non rendere più dei titoli pubblici, assai meno stressanti per la psicologia dell’investitore ”medio-normale”, secondo la definizione di un lettore. ”A ciascuno il suo portafoglio”, concludeva il responsabile di Plus 24 Marco Liera. Non tralasciando che nella maggior parte dei casi, mixare diversi strumenti è più redditizio che concentrarsi su uno soltanto.