Tommy Cappellini, Il Giornale 08/06/2009, 8 giugno 2009
Per mettersi a piangere - un pianto umanistico - basterebbe il titolo di un capitolo del suo ultimo libro: «Ognuno di noi è informazione»
Per mettersi a piangere - un pianto umanistico - basterebbe il titolo di un capitolo del suo ultimo libro: «Ognuno di noi è informazione». Ci mancava solo questa. Ivan Illich passò la vita a rifiutarsi ostinatamente di «diventare un ricetrasmettitore di alcunché», preferendo di gran lunga essere un uomo, e poi ecco che arriva Clay Shirky e in Uno per tutti, tutti per tutti (Codice edizioni, pagg. 256, euro 23) ci arruola a forza nell’esercito dell’«informazione». E suggerisce: «Ti basta una connessione a internet, una macchina fotografica digitale, un blog, un po’ di fiuto, e sei subito protagonista. Anzi, sei subito ”informazione”. Puoi informare ed essere informato». Per fortuna Shirky è di quegli americani molto autoironici oltre che molto intelligenti, e parecchio del resto del suo libro lo spende per fare la chiosa dubbiosa alla tesi di cui sopra, oltre che per lanciare interessanti previsioni sullo sfaccettatissimo mondo dell’informazione e del giornalismo prossimo venturo, quello su carta come quello on line. Il primo è messo in crisi dal secondo, pare, mentre il secondo è messo in crisi dalla mancanza di fondi, dalla scarsità di introiti pubblicitari e dal dilettantismo (se «tutti sono informazione» il giornalismo è un gioco a somma zero). Della deriva della carta stampata, dell’«ultima copia del New York Times», si è molto discusso, come della morte della letteratura e del cinema («Non ne posso più, ha sbottato di nuovo Peter Greenaway. Se il cinema deve morire che muoia. Qualcosa ne prenderà il posto, oppure no»). Più interessante è riflettere sull’imminente crisi persino dei giornali on line, verso cui si dirigevano molteplici speranze. «Più che crisi imminente, ci dice Shirky, crisi attuale. Sta già accadendo sotto i nostri occhi. La pubblicità non ha prodotto i ricavi che si speravano e probabilmente non li produrrà mai. Sostenere i progetti editoriali diventa difficile. Credo che entreremo in una seconda grande fase di sostegni finanziari a tutela del giornalismo serio on line, solo che questa volta saranno i gruppi, e non gli individui o le grandi famiglie industriali, a metterci i soldi. I micropagamenti proposti qualche tempo fa da Rupert Murdoch per le sue testate digitali non saranno sufficienti a salvarle. I giornali on line vivranno sia con la pubblicità sia con gli sponsor e sia con le donazioni. E comunque molti usciranno dal mercato». Stabilire quali di questi cederanno il passo, però, non è semplice: moriranno le grandi e dispendiose testate on line di «cultura popolare»? Sopravvivranno invece quelle che si sono indirizzate verso una «cultura della popolarità», che guardano più al numero di click su un articolo che ai contenuti? «Tale differenziazione, ci spiega Shirky, esisteva fin da prima, solo che internet ha accelerato incredibilmente questo processo, ha fatto vedere quanto è normale e abusato. Non ne è certo stato la causa, che invece è riconducibile alla logica economica della ”sindacazione” delle notizie, per cui i quotidiani comprano contenuti prodotti altrove che poi vengono replicati anche dai concorrenti. Questo è andato avanti per anni e ha prodotto l’attuale ”grado Xerox” del giornalismo. Ma la sindacazione è una stupida pratica di un mondo fatto solo di link. Bisognerebbe andare sul posto e verificare la storia, piuttosto che copiare». Già, perché se pure i giornali moriranno e nulla, semplicemente, potrà mai sostituirli - come spiega Shirky in «Newspapers and Thinking the Unthinkable», un suo articolo diventato in poco tempo un punto di riferimento nella discussione sulla crisi dei quotidiani - rimarrà però l’esigenza civile e intellettuale del giornalismo «professionista». Ma come definirlo? Chi è infine il giornalista? Il ragazzo con il blog, la propria macchina fotografica e tanto fiuto, che fa giornalismo indipendente e veridico? Oppure «un professionista, scrive Shirky, che apprende un lavoro in un modo che lo differenzia dal resto della popolazione, e presta più attenzione al giudizio dei suoi pari che a quello dei clienti»? Uno che «ha legami con chi possiede mezzi di comunicazione e di produzione, uno per cui il conseguimento del premio ha innanzitutto a che fare con il riconoscimento da parte dei suoi pari»? Non solo i quotidiani, ma anche la figura cardine dell’informazione andrà rivisitata, se non rivoluzionata: il sentimento, però, è quello di una democratizzazione di massa del mestiere che renderà sempre più difficile rispondere a quello che dovrebbe essere il referente ultimo: il lettore. Già, il lettore. Dove sta in tutto questo? Sta sul web. Si procura le notizie da solo, confrontando diverse fonti o abbeverandosi a una sola. Si potrebbe quasi definire un non-lettore, anche se partecipa attivamente alla cultura del suo tempo: «cioè non subisce più, ci dice Shirky, un consumo passivo di essa, come accadeva guardando la tv, che è stata la vera distruttrice della cultura umanistica. Questa potrebbe essere la buona notizia che internet porta con sé». E la cattiva? «Le emozioni, ci dice, viaggiano più veloci del pensiero, e più i nostri media andranno veloci maggiori emozioni trasporteranno. Molti dei problemi con cui dovremmo vedercela in futuro arriveranno non dalla disumanizzazione dei rapporti, ma dalla frenesia delle folle aizzate sul web». Basti pensare, infatti, che dieci minuti di social web spinto trasformano spesso (e non solo in certi film à la «State of Play») un seme di verità in una foresta di menzogne, un’occhiata tra due persone in un adulterio consumato, mezzo punto in discesa su un listino di borsa in una crisi globale: ed è proprio questa velocità che crea un’inedita relazione tra gli avvenimenti. Qualsiasi risposta degli individui coinvolti, qualsiasi smentita pur veritiera, è costitutivamente tardiva, inutile. La velocità della televisione è nulla in confronto a questa del web che «prima pubblica e poi, al massimo, filtra». Le conseguenze psicologiche e nei rapporti tra persone sono ovviamente enormi. Ma può anche accadere il contrario: che tramite il web si arrivi a un risultato «legalmente giusto». All’inizio del suo libro Shirky racconta di come si può usare il social web per farsi restituire il proprio cellulare scordato su un taxi e finito tra le mani di qualcuno che ha talmente faccia tosta da non ammettere nemmeno di averlo ritrovato. Semplicemente, si mette in campo contro di lui una pressione mediatica - fatta di blog, twitter e quant’altro - e lo si svergogna attraverso informazioni precise. Insomma, la giustizia via audience. Noi diciamo: mah!