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 2009  giugno 08 Lunedì calendario

Quel tabù chiamato Grande Slam, mito del tennis sepolto dal progresso Udii menzionare per la prima volta la definizione Grand Slam quando, tra un match e l´altro, noi tennisti del dopoguerra si giocava fatalmente a bridge

Quel tabù chiamato Grande Slam, mito del tennis sepolto dal progresso Udii menzionare per la prima volta la definizione Grand Slam quando, tra un match e l´altro, noi tennisti del dopoguerra si giocava fatalmente a bridge. Ritrovai quel termine applicato al tennis in un articolo di John Kieran e un altro del mio amico Allison Danzig, nel corso di una ricerca nella Public Library di New York. Si riferivano, gli scribi americani, alla finale del Campionato degli Stati Uniti del 1933, annotando che se l´avesse vinto l´australiano Jack Crawford, avrebbe realizzato qualcosa di simile a un grand slam in zona e contrato: e cioè la giocata che offre il massimo punteggio. Contro l´inglese Fred Perry, Crawford giunse a un set dall´impresa, per finire come Dorando Pietri. E si dovette quindi attendere l´avvento dello straordinario Don Budge, dall´aureo rovescio tipo baseball, perché un tennista ascendesse all´immortalità, vincendo uno dopo l´altro i Campionati d´Australia, Francia, Gran Bretagna e America. Venne la Seconda Guerra Mondiale, e attendemmo ancora, noi fedeli della racchetta, sinché, nel 1962, un genio dai capelli rossi riuscisse nell´impresa, salvando lungo il percorso un match point (contro Mulligan ) a Parigi. Rod Laver riuscì a ripetersi nel 1969, l´anno seguente la riammissione degli sporchi professionisti tra i candidi dilettanti che prendevano soldi di nascosto. Simile divisione razzista riempì di buchi sino al ´68 l´aureo mantello del Grand Slam, se si pensa che, divenuto Pro, lo stesso Laver non ne disputò venti edizioni, e che il suo compare australiano Ken Rosewall fu costretto a saltarne addirittura 44. Laver, di Slam (che gli americani chiamano Majors) ne vinse 11. Rosewall 8. A quanti sarebbero arrivati, giocandoli tutti? Per non parlare di altri grandi del passato, a partire da Big Bill Tilden, (10 Slam) che mai compirono una traversata di 6 settimane per sbarcare in Australia, torneo allora troppo periferico e quindi minore. Le statistiche dello Slam son dunque fallaci, e mi pare di prenderle sul serio soltanto dal 1968, la data d´inizio dell´Open. Rimane il fatto che, dall´anno successivo, nessuno dei presunti "più grandi del mondo", tali soltanto per i cronisti di provincia, è riuscito nell´impresa. Sampras ne ha collezionati 14, ad eccezione del Roland Garros mentre, di analogo complesso, si è appena liberato l´angosciatissimo Federer, raggiungendo così Pete in un teorico primo posto. Borg ne ha goduti 11, andando una sola volta in Australia. Agassi, Connors e Lendl 8. Il mitico Mac 7. E via scendendo. Quel che mi domanda un amico intelligente è la ragione di questi falliti tentativi, nel corso degli ultimi 40 anni. Devo innanzitutto rilevare che, sino a 20 anni addietro, i 3/4 degli Slam si disputavano sull´erba, e solo Parigi sul mattone trito. L´avvento di due superfici in cemento, Melbourne e New York, ha reso ancor più ardua la già difficile impresa. I rimbalzi, effetto dello scivolamento sull´erba, dell´attrito sulla terra, hanno assunto sul fondo duro un terzo tipo di parabola altrimenti sconosciuta. Ma non è stata soltanto questa la novità dell´Era Open. 2 delle 4 prove, per ragioni di cassetta, hanno dischiuso il sipario a spettacoli serali, a match giocati sotto la luce artificiale. Ed ecco una della possibili ragioni per le quali Bjorn Borg ha subìto forature notturne a New York, pur avendo raggiunto 4 finali. E non visitando che una volta l´Australia, ancor giovanissimo, per inciso. Ma c´è probabilmente dell´altro, a rendere ancor più complicata l´impresa. Se non è vero che i contemporanei giocano più match dei loro ascendenti, è vero invece che è aumentata la qualità media del gioco, anche in seguito all´invenzione di racchette molto più gestibili, di sweet spot (sorta di baricentro) almeno tripli. Ai tempi in cui Berta giocava, era possibile passare 2 o 3 turni di uno Slam incontrando giovanotti volonterosi quanto sprovveduti. Oggi, per i 128 iscritti ad un Major, le trappole incombono sin dalla prima partita, magari contro un qualificato, avvezzo a palle e rimbalzi. La fatica dei viaggi aerei è poi aumentata in tale misura che si dovrebbero applicare ai tennisti gli studi in corso per gli equipaggi degli aerei, e il loro stress specifico. Ai tempi di Laver ci si spostava sì in aereo, ma le sedi del gioco erano meno centrifugate, e gli effetti del jet lag limitati a tre spostamenti annuali, Australia-Europa, Wimbledon-Usa e ritorno a casa. Si vede - mi auguro – da queste considerazioni come l´impresa sia diventata difficilissima, se già era difficile. Nonostante ciò, a un attaccante quale Federer, era mancato soltanto il Roland Garros: il torneo in cui le partite sono mediamente più lunghe, perché sono più ribaditi i palleggi. In generale, si può e deve tener presente che questo sia l´ostacolo principale, insieme alla enorme difficoltà di orientare la propria condizione su tre segmenti quali Melbourne (gennaio), Parigi-Wimbledon (24 maggio-7 luglio), e Flushing (inizio settembre). Risulta poi da esami alfine attendibili che i tennisti sono una delle categorie che meno ricorre ad aiuti chimici per sottrarsi alla fatica (sin qui, una decina soltanto di dopati, e due incoscienti che hanno preso la coca per diletto, Hingis e Gasquet). Non ci resta quindi che attendere, nella fragile speranza dell´avvento di un genio, forse non ancora nato. O di una futura prodezza di Nadal, i cui fragili tendini possono, purtroppo, limitarne o addirittura bloccarne la carriera, come temiamo in molti. Il Federer di oggi, apparentemente rinato in assenza della sua nemesi spagnola, ha probabilmente atteso troppo. L´anno prossimo compirà, nel bel mezzo degli Slam, 29 anni.